Eli Sharabi - Intervista esclusiva


«IO LIBERO, MIA MOGLIE E LE MIE FIGLIE UCCISE DA HAMAS»

Il rapimento, le umiliazioni, le strategie di sopravvivenza. «Sono tornato che pesavo 44 chili». Poi la scoperta della tragedia e una decisione: «Continuerò a vivere per loro»

di Fiamma Tinelli da Tel Aviv su Oggi

«Se avessi saputo che era l’ultima volta che vedevo mia moglie e le mie figlie, avrei gridato loro quanto le amavo. Non l’ho fatto, e ci penso ogni giorno.»

Eli Sharabi è stato ostaggio di Hamas per 491 giorni. Rapito nel kibbutz Be’eri il 7 ottobre, sotto gli occhi terrorizzati della sua famiglia, quando è stato rilasciato, l’8 febbraio, pesava 44 chili. Il suo L’ostaggio (Newton Compton) è la prima testimonianza scritta di uno dei rapiti.
Lo incontro a Herzliya, in Israele. È un uomo minuto e pacato. Nei grandi occhi neri c’è più di quanto le sue parole non dicano. Se è sopravvissuto al terrore, spiega, è stato per riabbracciare sua moglie Lianne e le figlie Noiya e Yahel, di 16 e 13 anni. Per un anno e quattro mesi, mentre era nelle mani di Hamas, le ha credute vive.

Cosa ricorda del giorno del rapimento?
«Mia moglie era paralizzata davanti all’armadio: i miliziani le avevano ordinato di vestirsi, ma non riusciva a pensare. Le ragazze, strette l’una all’altra. I miei occhi cercavano il nostro esercito, ma non è mai arrivato.
Quando mi hanno trascinato via, ho urlato solo: “Tornerò presto”. Lianne era inglese: lei e le ragazze avevano la cittadinanza britannica. Ero convinto che questo le avrebbe protette.»

Chiuso nel baule di un'auto, come ha capito che l'avrebbero portata a Gaza?
«Conosco l'arabo. I miliziani non lo sapevano, ma capivo tutto. Erano increduli, pazzi di gioia per quanti israeliani erano riusciti ad ammazzare. Se ero ancora vivo, quindi, volevano degli ostaggi. È stato in quel momento che ho deciso che avrei fatto tutto quanto in mio potere per tornare dalla mia famiglia. Tutto».

Per un breve periodo è stato tenuto prigioniero in un appartamento.
«Ero bendato, le braccia legate dietro la schiena. Cercavo di intuire dalle voci, dagli odori. Era la casa di una famiglia di gazawi. Genitori e figli istruiti, con un ottimo inglese, vivevano al piano di sotto; io e due miliziani di Hamas di sopra. Ai miei carcerieri avevo dato dei soprannomi. "Maschera" era più gentile, col tempo cominciò a parlarmi».

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23/10/2025

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