DI GRIFONI, SIRENE E ALTRI PRODIGI


Lo scrittore spiega l'origine medievale di animali e creature fantastiche adottati poi dalla letteratira: da Tolkien a J.K.Rowling a Umberto Eco

Marcello Simoni su la Repubblica

 

Le sirene fecero la loro comparsa nella Bibbia quando il Vecchio Testamento fu tradotto dall’ebraico al greco. Di preciso accadde durante la stesura della versione dei Settanta, nel momento in cui gli amanuensi alessandrini, di fronte ai termini tannim (sciacallo) e benot ya’anah (struzzo), decisero di tradurli con la parola seirénes, trasformando i deserti maledetti da Dio in covi di mostri estranei alla tradizione rabbinica.

Non stiamo parlando delle sirene con la coda di pesce tanto care ai miniaturisti medievali, ma di creature simili alle arpie dell’inferno dantesco. Creature alate che, a causa della loro tendenza a insidiare i naviganti, vennero definite da Isidoro di Siviglia volgari meretrici e le loro ali e artigli allegorie dell’amore “che vola e ferisce”. Ciò nonostante, quasi a non voler fugare il senso della meraviglia, l’autore delle Etimologie aggiunge che “sirena” è anche il nome di un grande serpente alato dell’Arabia, più veloce di un cavallo e dal morso velenosissimo.

Per una volta, si potrebbe affermare, i mostri non nascono dal sonno della ragione, bensì da un immaginario iperintellettualizzato, educato da una multiforme cultura bibliofila che va dalle leggende su Alessandro Magno all’Apocalisse di Giovanni. Un immaginario fin troppo ingombrante perché gli eruditi del passato abbiano potuto resistere alla tentazione di parlarne nei loro scritti.

Fiorisce così, a cavallo dell’anno Mille, una sorta di enciclopedismo del meraviglioso volto ad arricchire i trattati sulla natura, le vite dei santi e le opere geografiche con descrizioni di esseri bizzarri quali i cinocefali, i draghi, le antilopi a sei zampe, gli unicorni e le sfingi, allo scopo di accrescere, o a volte di sovvertire, la dimensione simbolica di un mondo conoscibile non solo attraverso i sensi, ma anche grazie all’intelletto.

Ecco perciò che in famosi bestiari come il De universo di Rabano Mauro e il De avibus di Ugo di Fouilloy vengono inserite, a fianco della rondine, dello sparviero e della colomba, creature effimere quali la fenice, che rinascendo dalle proprie ceneri “significa la resurrezione dei giusti”, o altre realmente esistenti ma elevate al rango di monstrum (prodigio), come il pellicano, creduto capace di riportare in vita i propri piccoli grazie al sangue che si fa sgorgare dal petto.

Nemmeno la pratica della falconeria, cui Federico II di Svevia dedicò il celebre trattato De arte venandi cum avibus, è esente da simili accostamenti. Paragonata alla cattura delle anime da parte del demonio e, in ambito poetico, al corteggiamento amoroso, risuona ancora delle leggende celtiche secondo le quali il falcone era il messaggero dell’oltretomba, finendo per essere accostato, insieme all’aquila, ad alcuni rapaci fantastici che ne condividono l’indole predatoria. Primo fra tutti il simurg, menzionato nel Dialogo degli uccelli del mistico persiano Farid al-Din Attar e descritto sei secoli più tardi da Flaubert, nella Tentazione di sant’Antonio, come un volatile dotato di quattro ali, terribili artigli e testa umana. Longevo quanto la fenice, questo animale viene spesso confuso con il ruc delle Mille e una notte. Un equivoco del tutto lecito, se paragonato a quello in cui cadde Marco Polo quando, durante le sue peregrinazioni in Oriente, scambiò a sua volta il ruc per il grifone. “D’aspetto somiglia all’aquila”, scrive nel Milione, “ma è incomprensibilmente più grande, e così forte da poter sollevare fra gli artigli un elefante”.

Sembrerebbe quasi di riconoscere in queste parole una delle grandi aquile di Manwë cavalcate dallo stregone Gandalf nel Signore degli anelli, se non fosse che il ruc ha eletto a suo territorio di caccia le regioni del Madagascar e dell’Asia. Anche se mai dire mai! Pare infatti che nel mondo dell’immaginario sia possibile abbreviare le distanze cronologiche e geografiche fin quasi ad annullarle. Alludo a quel genere di scorciatoia che permise a Tolkien di prendere in prestito il drago di Beowulf per inserirlo nella trama dello Hobbit, allo stesso modo in cui l’agiografo medievale Jacopo da Varazze, nel pieno Duecento, fece entrare nei suoi scritti il medesimo mostro – rubandolo forse da una miniatura o da un arazzo – per farlo combattere contro san Giorgio. O come Umberto Eco, dopo aver spulciato in qualche bestiario, affidò al monaco Salvatore un presunto uovo di basilisco.

I libri, d’altro canto, sono portali dai quali si entra e si esce a piacimento. Portali collegati ad autentici caveau delle meraviglie che niente e nessuno ci vieta di saccheggiare, soprattutto se il bottino al quale diamo la caccia consiste in bestie favolose come il kraken di Olao Magno, gli uccelli parlanti incontrati da san Brandano sull’Isola dei Beati o quelli che attaccarono Alessandro Magno emettendo fuoco dalle ali e attaccando in stormo i soldati greci allo stesso modo in cui, molto più tardi, accadrà in Uccelli di Hitchcock.

Ma torniamo al grifone, figura emblematica della “falconeria immaginaria”. L’esploratore sefardita Benjamin da Tudela apprese della sua esistenza intorno al 1165, durante un viaggio in Oriente, e lo dipinse nel Sefer Massa’ot (Itinerario) come un gigantesco rapace uso a catturare i marinai che si avventuravano nei mari della Cina. Esattamente cent’anni dopo, il doctor universalis Alberto Magno lo inserirà nel suo De animalibus, riportando – come prima di lui Rabano Mauro e Isidoro di Siviglia – la stessa descrizione fornita da Erodoto: un mostro alato, mezzo aquila e mezzo leone.

Parole scivolate da un libro all’altro nel corso di millenni. Fino a quando J.K. Rowling non le userà in un capitolo di Harry Potter, mettendo il suo maghetto di fronte alla stessa, favolosa creatura.

 

 

Questo articolo di Marcello Simoni richiama Il castello dei falchi neri, thriller medievale in cui i delitti sono commessi da un grande rapace.

 


03/08/2022

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