Napoleone nei secoli bestseller


Tolstoj, Stendhal, ma pure Joseph Roth e Anthony Burgess. Mentre spopola una nuova saga su di lui, indagine sulla fortuna letteraria dell'Imperatore. Tra capolavori e kitsch

di Giuseppe Scaraffia

Chi entrava nello studio di Balzac poteva leggere su una striscia di carta incollata sulla spada di una statuina di Napoleone: «Quel che lui non è riuscito a finire con la spada, lo realizzerò io con la penna». Monarchico e legittimista, Balzac aveva un debole per l'imperatore con cui si identificava spesso. In Una tenebrosa vicenda lo ritrae in una pausa della battaglia di Jena, con gli stivali infangati e il «pallido e terribile viso da Cesare» chino su una carta geografica.

Ma gli scrittori più diversi sono stati attratti da Napoleone. Basti pensare al culto di Marina Cvetaeva che aveva tappezzato una parete con le immagini del suo mito. Le infinite sfaccettature di Bonaparte di volta in volta reazionario e rivoluzionario, cinico e idealista, crudele e generoso, vincente e perdente, lo rendono irresistibile. Non a caso la nuova saga napoleonica di Simon Scarrow ha finora venduto cinque milioni di copie. Anche se nell'Ultimo campo di battaglia (Newton Compton Editori), Scarrow continua a mettere Napoleone in parallelo con Wellington, il protagonista resta sempre il piccolo imperatore.

Storici, poeti, registi, pittori e scultori si sono cimentati con lui. Dumas, Stendhal e Walter Scott hanno tentato di decifrarlo in alcune biografie, ma la letteratura è più adatta a ritrarre i volti contradditori del condottiero. I suoi avversari, accecati dall'odio, non hanno mai prodotto un'opera di valore. Il più tenebroso resta Rougemaitre de Dieuze autore nel 1815 di una fosca fiaba, L'orco della Corsica. Storia vera e meravigliosa, in cui Bon-à-Part è un avido tiranno terrorizzato dalla morte che si tappa le narici con le mani insanguinate per non sentire il fetore dei cadaveri provocati dalla sua fame di guerre. Solo Thomas Hardy fa vedere Bonaparte dal punto di vista degli inglesi che temono di essere invasi. Sbarcato clandestinamente in Inghilterra per verificare una possibile invasione, Napoleone ha «la testa rotonda come una palla, il mento e le guance rotondi e giallastri, il viso cupo e i grandi occhi brillanti».

Viceversa Heinrich Heine, malgrado sia tedesco, fa dell'imperatore che entra a Dusseldorf una benevola divinità, soffermandosi sul suo sorriso rassicurante e sulla mano bianca che ha domato l'anarchia, diffuso la pace tra i popoli e dato agli ebrei come lui i diritti civili. Un ex-militare di carriera come Alfred de Vigny ritrae ambiguamente Napoleone prima dell'impresa d'Egitto mentre gioca con i riccioli di un bambino (in Servitù e grandezza della vita militare). Un'immagine pacifica che sfuma appena il generale alza il viso lasciando vedere «la fronte gialla circondata da lunghi capelli pendenti, come uscisse dal mare, i grandi occhi grigi, le guance magre e il mento appuntito».

Più indietro nel tempo si spinge Annemarie Selinko in Désirée (Neri Pozza), facendo riemergere un Bonaparte giovane e ardente, sparuto, la pelle bruciata dal sole, il cappello e gli stivali troppo grandi. Tolstoj in Guerra e pace mette in risalto la prominenza del ventre, le gambe corte e il collo grosso di Napoleone, come se l'invecchiamento precoce fosse il segno di un deterioramento interiore. Ma ogni remora viene superata quando il principe Andrej, ammiratore dell'imperatore come tutta l'élite russa e inglese, vede arrivare Napoleone sul campo di battaglia, dove giace gravemente ferito. È allora che fissando il cielo dietro il condottiero, sente tutta la vanità di Napoleone che passeggia tra i cadaveri e loda la sua morte. Quel grande generale è solo un personaggio secondario nella grande tragedia messa in scena dalla storia, una tragedia in cui il minimo fatto casuale può essere decisivo.

Prima di lui già Victor Hugo nei Miserabili si era soffermato sul tema del logoramento fisico. «Quale parte d'errore spetta a Napoleone nella perdita di quella battaglia? Si può imputare il naufragio al pilota? 0, forse, l'evidente declino fisico di Napoleone si complicava allora con una diminuzione intellettuale? Vent'anni di guerra avevano dunque consumato la lama, insieme al fodero? In una parola, questo genio stava sfumando? La sua frenesia serviva a nascondergli il suo indebolimento? Era stato preso, a quarantasei anni, da una follia suprema?». Ma il tema nodale resta Waterloo. Il suo piano di battaglia era, per ammissione di tutti, un capolavoro e quel giorno tutti avevano notato il sorriso sicuro sulle labbra del condottiero sicuro della vittoria. Tuttavia «le nostre gioie sono ombre, il sorriso supremo è quello di Dio». Waterloo è «la giornata del destino, prodotta da una forza che sta al di sopra dell'uomo».

Un punto di vista ancora più radicale anche se più implicito era già affiorato nella Certosa di Parma. Stendhal che aveva servito sotto Napoleone ha con lui un rapporto ambiguo in cui il disprezzo per i suoi difetti non riesce a smantellare un'inconfessata adorazione. Il caos di Waterloo insinua il sospetto che in realtà non solo lo sbalordito Fabrizio del Dongo, ma nemmeno Napoleone sia in grado di decifrare e di controllare quel brulichio di scontri e di incidenti.

Persino un reazionario come Leon Bloy, in L'anima di Napoleone non si sottrae al suo fascino e, malgrado gli anni trascorsi, continua a soffrire per la disfatta di Waterloo e «l'inaudita solitudine» dell'imperatore. La parabola di quella meteora, conclude, rimane incomprensibile se non la si trascende: «La storia di Napoleone è il volto di Dio nelle Tenebre». Nella schiera dei sostenitori dell'imponderabilità dei fattori in gioco in una battaglia si schiera anche Stefan Zweig. Per lui a causare la sconfitta di Waterloo non è stato un errore di Napoleone, ma l'incapacità di uno dei suoi generali a reagire autonomamente a una situazione non prevista dagli ordini ricevuti.

Il Novecento vede invece prevalere un'umanizzazione della figura di Napoleone che si allontana dalla dimensione mitica dell'eroe supremo. In I cento giorni, quelli dell'imperatore Napoleone evaso dall'isola d'Elba, Joseph Roth parla «di un grande umile», un uomo fragile e solo che sente aleggiare sul suo capo la sconfitta, divorato dai dubbi tra le folle osannanti. Anche Jean-Marie Rouart, in Napoléon ou La destinée, mette l'accento sulle sofferenze, le crisi e i dubbi di un uomo sempre sul bordo dell'abisso. Per lui le vittorie di Napoleone nascondono «un mare sotterraneo» di disperazione e di incertezza. In The Napoléon Symphony di Anthony Burgess, scritta sulla traccia dei quattro movimenti dell'Eroica di Beethoven, sul condottiero prevale un Napoleone riflessivo che si interroga sul significa della sua vita e quello che resterà di lui nella storia.

In La mort de Napoléon di Simon Leys l'imperatore riesce a dileguarsi dopo la sconfitta di Waterloo scoprendo tardivamente il valore di una tranquilla esistenza borghese. Max Gallo, per non farsi abbagliare da Bonaparte, ne ricostruisce la vita dal punto di vista del protagonista, di chi cioè non sa ancora cosa lo aspetta. Ne risulta, ancora una volta, un Napoleone "umano, troppo umano". Ernesto Ferrerò, in N., usa per sorprendere l'imperatore alle prese con la quotidianità dell'Elba il cannocchiale rovesciato del suo bibliotecario. Per Patrick Rambaud Napoleone è indecifrabile. Può solo dire che è stato tradito da un'eccessiva fiducia in se stesso e dal fatto che gli altri non osano dirgli la verità.

Chi potrà mai capire, si chiede Balzac, «un uomo che viene rappresentato a braccia conserte e ha fatto tutto... Un uomo che poteva fare tutto perché voleva tutto; un prodigioso fenomeno di volontà, che doma una malattia con una battaglia e tuttavia doveva morire di malattia in un letto dopo avere vissuto tra le pallottole?».

Fonte: Il Venerdì di Repubblica 27/10/2017


27/10/2017

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