Un estratto del libro L'ostaggio che raccoglie la testimonianza di Eli Sharabi, catturato dagli islamisti, rilasciato quasi 500 giorni dopo, tornato in Israele per scoprire che la moglie e le figlie erano state uccise poco dopo il suo rapimento.
di Eli Sharabi su Repubblica.it
Cinque terroristi entrano ad armi spianate. Siamo tutti in pigiama; loro in uniforme, con i passamontagna e i kalashnikov. Ci hanno trovati: siamo io, mia moglie Lianne, le nostre bellissime figlie Noiya e Yahel, e il nostro cane. Siamo nella safe room di casa nostra; è un rifugio rinforzato che dovrebbe proteggerci dagli attacchi missilistici, non da intrusi come loro. Il cane abbaia spaventato. Non le piacciono gli sconosciuti. Il rumore attira il fuoco dei terroristi, e gli spari rimbombano contro le pareti. Sono assordanti. Io e Lianne ci gettiamo sulle ragazze per proteggerle, controllando che non siano ferite e gridando ai terroristi di smettere. Li imploriamo. «Non temete», rispondono in arabo, e ci ordinano di consegnare i cellulari. Guardo le mie figlie negli occhi. Noiya ha sedici anni. Yahel appena tredici. Cerco di rassicurarle, dico che andrà tutto bene. Non gridano. Non piangono. Non dicono una parola. Sono paralizzate dalla paura. Non dimenticherò mai il terrore nei loro occhi.
So che tutti dicono che sia iniziato alle 6:29. Io non ricordo le 6:29. Ricordo il cellulare di mia moglie che faceva un baccano assordante, svegliandoci tutti la mattina di Shabbat. È la festa ebraica di Simchat Torah. Il 7 ottobre 2023. Lianne ha installato un’app che suona a tutto volume ogni volta che viene lanciato un missile verso la nostra area. Non mi è mai piaciuta. Ci manda tutti in paranoia, in casa, ma Lianne ha insistito. E oggi è proprio quell’app a svegliarci. Lianne salta giù dal letto per chiamare Noiya, che dorme al piano di sopra, e io sveglio Yahel, che sta nella sua stanza al piano terra, come noi. Lianne conforta Noiya, io calmo Yahel. Ci sono razzi da Gaza, spieghiamo. Sanno già come funziona. Corriamo in camera di Yahel, che fa anche da safe room: siamo io, Lianne, Noiya, Yahel e il cane. Nessuno va nel panico. Non è la prima volta. Abbiamo già una certa esperienza.
La nostra casa nel kibbutz Be’eri è a meno di cinque chilometri da Gaza. Anche quando i razzi non riescono davvero a raggiungerci, vediamo sempre i missili del sistema di difesa Iron Dome che li intercettano in cielo. Siamo abituati ai boati. Accendiamo la tv nella safe room e ce ne rendiamo conto: stavolta si tratta di qualcosa di molto più serio. Le sirene antirazzo non suonano soltanto nel Negev occidentale, nelle città e nei villaggi lungo il confine con la Striscia di Gaza: l’attacco è molto più esteso. Comunque non c’è motivo di farsi prendere dal panico. Non appena le sirene smettono di suonare, esco dalla safe room per preparare un tè a mia moglie e alle ragazze. Come ci si può aspettare da una persona cresciuta in Inghilterra, Lianne ha trasmesso il suo amore per il tè alle nostre figlie. Non possono iniziare la giornata senza una tazza di English Breakfast. È tradizione. Torno nella safe room con la teiera, e beviamo mentre ascoltiamo le sirene fuori (hanno ripreso a suonare) e guardiamo il telegiornale. E poi… lo vediamo.
La tv mostra le immagini di uomini armati dal volto coperto su un pick-up Toyota bianco che percorre le strade di Sderot. È a quindici chilometri da qui. Rimango a bocca aperta. È un evento senza precedenti. La nostra squadra d’emergenza locale ci aggiorna su WhatsApp. All’inizio ci avvertono della possibilità che alcuni terroristi si siano infiltrati nel kibbutz. Poi diventa un dato di fatto: ci sono dei terroristi nel kibbutz. E in quel momento vengono diffuse le prime immagini di un attacco vicino al kibbutz Re’im, a pochi chilometri da qui. Viene data la notizia che il Nova Festival, un evento musicale ancora in corso da stanotte, si è trasformato rapidamente in un bagno di sangue quando un gruppo di miliziani di Hamas ha aperto il fuoco sulla folla. Assistiamo al caos: ragazzi e ragazze coperti di sangue che scappano nei campi di grano. Cerco di rassicurare Lianne e le mie figlie: «Anche se i terroristi si sono infiltrati nel kibbutz, non possono essere più di due o tre». Seguono nuovi aggiornamenti, e la mia previsione inizia a sembrare assurda. Non si tratta solo di Re’im, Sderot o Be’eri. Ci sono uomini armati a Ofakim, sulla strada per Netivot, e in tutti i kibbutz della zona. Noi e le ragazze siamo dentro diversi gruppi WhatsApp, e arrivano informazioni a raffica.
La squadra d’emergenza ci avverte: si sono imbattuti nei terroristi. Ci sono vittime. Se ci sono vittime, la situazione non è buona. Messaggi su messaggi. Ping. Ping. Ping. Siamo incollati ai cellulari, e ogni aggiornamento disegna un quadro sempre più spaventoso. I messaggi nelle nostre chat – del kibbutz, dei genitori della comunità, del gruppo giovanile, degli amici – sono sconvolgenti. “Hanno sparato alla mamma!”, scrive una compagna di classe di Yahel, una ragazza di tredici anni che abita a qualche centinaio di metri da qui. Poi la verità viene a galla: nel kibbutz si sono infiltrate decine di terroristi. Vanno di porta in porta, irrompono nelle case e forzano le safe room. Rubano persino le auto. L’esercito israeliano: non pervenuto. Se stanno rubando le macchine, vuol dire che possono rapire ostaggi e portarli a Gaza. Gaza è vicinissima, al di là della recinzione del kibbutz. Dov’è l’esercito che dovrebbe proteggerci?!
Mentre Lianne scrive alla sua famiglia in Inghilterra, comunichiamo a sguardi. Gira il telefono per farmi leggere i messaggi che le arrivano. I terroristi hanno fatto irruzione nella casa di questo tizio. Hanno sfondato la porta dell’abitazione di quella tizia. Abitiamo in un kibbutz, una piccola comunità agricola. Ci conosciamo tutti. So dove si trova ogni casa, quante persone ci abitano, chi sono. Esco dal rifugio senza fare rumore, chiudo a chiave la porta d’ingresso e assicuro tutto quello che posso: persiane, porte, finestre. Sentiamo dei tonfi, poi un cigolio. I terroristi stanno cercando di entrare sfondando le persiane. Chiudo la porta della safe room e tengo la maniglia bloccata. Come in quasi tutte le stanze analoghe in Israele, non ci si può chiudere a chiave da dentro. Sono progettate per proteggerci dai razzi, non dalle intrusioni. In ogni caso, i terroristi non riescono a entrare in casa nostra e passano a quella accanto. Lascio andare la maniglia solo quando sono sicuro che se ne siano andati. Speriamo che sia passata, che ci abbiano saltati. Dai messaggi che arrivano, scopriamo che stanno lanciando molotov nelle abitazioni dei vicini, incendiandole mentre le famiglie terrorizzate sono ancora barricate all’interno.
Decidiamo che, se dovessero tornare, non opporremo resistenza. Speriamo così di proteggere le ragazze e di evitare che i terroristi aprano il fuoco. Sono le 10:45. In una normale mattina di Shabbat, a quest’ora saremmo seduti a tavola in famiglia a mangiare: una settimana il jachnun, un’altra la shakshuka di Lianne. Ma questo non è uno di quei sabati. Siamo bloccati nella safe room da più di quattro ore. Crash! La finestra nella tromba delle scale va in frantumi. Affacciata sui campi circostanti, è l’unica della casa senza le persiane. Sento uno degli uomini di Hamas arrampicarsi, andare alla porta d’ingresso e aprire ai suoi compagni, che prendono d’assalto la casa e in un attimo raggiungono il nostro rifugio. La porta si apre. Ci trascinano fuori. In soggiorno ci sono ancora i palloncini delle feste di compleanno di Noiya e Yahel. Sono nate entrambe a ottobre, per cui nell’ultima settimana abbiamo festeggiato due volte. I cinque terroristi che hanno fatto irruzione in casa non sono da soli. Ce ne sono altri cinque, più un comandante che abbaia ordini. Sono militanti esperti e meticolosi, che sanno quello che fanno. Due di loro mi spintonano senza tanti complimenti. So che hanno intenzione di rapirmi, non ho dubbi al riguardo.
«Passaporto britannico! Passaporto britannico!», inizia a gridare Lianne in inglese, cercando di far capire a gesti che lei e le ragazze sono cittadine britanniche, e che i documenti che lo dimostrano si trovano al piano di sopra. Ne abbiamo parlato più volte. Siamo sicuri che Hamas non oserebbe toccare i sudditi di Sua Maestà. Mia moglie e le mie figlie dovrebbero essere al sicuro. Uno dei terroristi mi fa cenno di andare su a prendere i passaporti. Inizio a salire le scale. Il vetro rotto della finestra brilla alla luce del sole. Il comandante mi scorge e ordina ai suoi uomini di riportarmi giù. Mi trattengono in soggiorno, spostano le ragazze in cucina e ordinano a Lianne, che è ancora in pantaloncini e canottiera, di vestirsi. Lei va in camera nostra. Io sono accanto alla porta, bloccato dai terroristi. La guardo esitare davanti all’armadio, incerta su cosa mettersi o cosa fare. «Lianne, non ti agitare», le dico. Mi fissa. I suoi occhi parlano da soli: “E come cavolo faccio a non agitarmi?”.
Penso che staranno bene, Lianne e le ragazze. Voglio dire, le hanno solo detto di vestirsi. In ogni caso hanno il passaporto britannico. E a pensarci bene, se avessero voluto ucciderci, ci avrebbero già crivellato di colpi nella safe room, finendo il lavoro in cinque secondi netti per poi passare alla casa successiva. I terroristi iniziano a trascinarmi via. Sono scalzo. Non vedo più le ragazze, che sono nella cucina alle mie spalle, perché mi tengono la testa piegata in avanti. «Tornerò presto!», grido mentre continuano a spingermi. Non le sento. Non so se mi abbiano sentito. Mi trascinano fuori dalla porta d’ingresso. Sono bloccato in mezzo a due di loro, costretto a tenere il capo chino. Quando riesco ad alzare la testa e a lanciare un’occhiata furtiva, vedo il massacro perpetrato nel mio bellissimo kibbutz. Le case dei vicini sono in fiamme. Quella della famiglia Or. Quelle delle famiglie Lev e Zohar. Sono nostri amici… Yonat Or e Or Lev erano in classe con me a scuola. L’area pullula di terroristi armati. Ridono, camminano tutti spavaldi, pedalano persino sulle biciclette dei vicini. Uno di quelli che mi stanno tenendo si accorge che ho alzato lo sguardo, dà di matto e mi colpisce, facendo volare via gli occhiali da lettura che tenevo sopra la testa. Gli uomini armati mi trascinano verso la recinzione perimetrale del kibbutz, a poche decine di metri dalla nostra casa.
Abitiamo in un quartiere relativamente nuovo, si chiama Kerem. È nella parte nordoccidentale della comunità, sul lato che dà sulla Striscia di Gaza. Superiamo la recinzione e ci dirigiamo verso nord. Mentre camminiamo, incrociamo altri terroristi che, a turno, mi prendono a pugni. Uno di loro mi dà un calcio nelle costole. Gli uomini che mi tengono cercano di impedire agli altri di avvicinarsi. “Mi vogliono vivo”, penso. A un certo punto tolgono una fascia per capelli a un terrorista per coprirmi gli occhi. Non vedo praticamente niente. Mi stanno rapendo. Capisco che è una catastrofe. Capisco cosa significa. Non mi importa dei colpi che ricevo, non li sento nemmeno. Perché in questi momenti, mentre mi portano oltre la recinzione del kibbutz, sotto il sole cocente, circondato dall’odore delle macerie bruciate, con una fascia per capelli sugli occhi, trascinato da terroristi che mi stringono entrambe le mani, pienamente consapevole che mi stanno portando a Gaza ma sapendo che almeno hanno risparmiato Lianne e le ragazze, mi concentro su un’unica missione: sopravvivere per tornare a casa.
Non sono più semplicemente Eli. Da questo momento sono Eli il sopravvissuto. La recinzione all’estremità nordoccidentale del kibbutz è spalancata. Lì c’è un uomo che sembra un coordinatore di taxi, dirige il traffico. A differenza degli altri, non ha il volto coperto. Ha un ruolo specifico. Non è un semplice terrorista: è un amministratore. C’è un ordine preciso, un piano. Una logica in questa follia omicida. Ho capito cosa sta succedendo. I terroristi stanno caricando gli ostaggi sui veicoli rubati per portarli nella Striscia di Gaza. Arriviamo a una sorta di punto di raccolta. Due uomini mi spingono dentro a un’auto. La riconosco, è del kibbutz. Mi costringono a sdraiarmi sul pavimento, sul retro della macchina, e partiamo. Non sanno che capisco l’arabo. Seguo ogni parola. Ascolto. Sono euforici. Increduli di fronte a quel che sta succedendo. Contentissimi di aver superato le aspettative. Sorpresi di aver conquistato Be’eri con tanta facilità. «Hada millian, hada millian!», si dicono. «Sono milionari, questi ebrei!». Mi buttano una coperta addosso. Sono sdraiato sul pavimento della macchina. Sto morendo di caldo. Sto sudando. Percorriamo strade piene di curve. Sento i terroristi agitarsi. Sono sicuri che verremo colpiti da un attacco aereo da un momento all’altro. Lo sono anch’io. Dopo un breve tragitto, si fermano e caricano un altro ostaggio nella macchina, un lavoratore thailandese di un kibbutz vicino. Me lo buttano addosso. L’auto accelera verso ovest. Non vedo niente, ma sento un lento cigolio metallico. Superiamo un cancello, forse un checkpoint. I terroristi si fermano un attimo e parlano con qualcuno. L’auto riparte, e so che è la fine. Ci stanno portando dentro. Dentro Gaza.
07/10/2025