Dove sono gli Ultrà.


ADDIO ALLE CURVE. CON GLI STADI CHIUSI HANNO DOVUTO REINVENTARSI: TRA PROCLAMI, POLITICA E PERFINO IMPEGNO SOCIALE, C'È PURE CHI HA CAMBIATO ROTTA. SU UN PESCHERECCiO...

Matteo Tonelli sul Venerdì

Ad Aarhus, in Danimarca, ci hanno provato. Il 19 maggio hanno piazzato un maxischermo a bordo campo per la partita della squadra locale contro il Randers dove venivano proiettate le immagini dei tifosi collegati via Zoom. Va così il calcio costretto dal coronavirus a far giocare le partite in impianti deserti, privato della linfa che lo alimenta: i tifosi. A partire da quelli delle curve: gli ultra. Un mondo che gode di pessima reputazione, guadagnata grazie a troppe giornate di violenza, ma anche quello di cui oggi, a spalti deserti, si capisce un po' di più il ruolo. In una realtà così diffidente verso l'esterno, Tobias Jones, giornalista e scrittore inglese trapiantato a Parma (per cui fa il tifo, insieme all'Everton), è entrato dentro, passando due anni con gli ultrà del Cosenza. Ne è venuto fuori un libro Ultrà. Il volto nascosto delle tifoserie di calcio in Italia (Newton Compton , pp. 384, euro 9,90) che ne racconta li folklore ma anche il fondamentalismo. Oggi che a dare un duro colpo alle curve, come quelle fotografate dal 2003 al 2010 da Andrea Rigano in #westand ci ha pensato il virus, la ragion d'essere dei gruppi delle curve sembra vacillare. Ma è solo un'impressione. Perché no­nostante Jones sostenga che «alcuni di loro sono contenti di poter prender­si una pausa senza avere l'obbligo del­la militanza», l'attivismo dei gruppi resta alto, spostandosi dagli stadi alle strade. Raccolte di fondi, distribuzione di cibo, campagne contro il "calcio mo­derno", manifesti più adatti a un par­tito politico che al pallone, insomma, tutto va bene pur di non far dimentica­re il proprio peso. Che a nessuno venga in mente che si possa far a meno di noi, è il messaggio. Per questo gli ultrà sem­plicemente continuano a fare gli ultrà, a partire dai ragazzi delle centinaia di gruppi che in primavera si erano schie­rati massicciamente contro la ripresa del campionato, coordinandosi tra di loro e tappezzando le città di striscioni. C'è naturalmente anche chi ha dav­vero deciso di fare un passo indietro, e il più celebre è Claudio Galimberti, il Bocia, leader incontrastato delIa Curva Nord dell'Atalanta che da qualche tem­po si è trasferito nella Marche. Nella sua scelta non c'entrano né i guai giu­diziari e nemmeno il Daspo che lo ha colpito fino al 2020. Le ragioni vanno cercate nell'emergenza coronavirus che ha sconvolto la sua Bergamo:«Adesso ho un lavoro fisso in un pe­schereccio. Restare in città era diven­tato troppo angosciante» ha fatto sa­pere, pensando ai tanti morti di Berga­mo. Dove gli ultrà locali, ai nemici storici di Brescia, hanno perfino provato a dare una mano alla realizzazione dell'ospedale alla Fiera. Gli ultras della Lazio, invece, alle prese con l'omicidio, ancora insoluto, di Fa­brizio "Diabolik" Piscitelli, hanno de­ciso di dedicarsi a una campagna dai toni più politici che calcistici. Lo hanno fatto attaccando «una classe politica incapace di governare». Per questo, dicono,«la ripresa deve essere accom­pagnata da risposte e aiuti concreti per il Paese. Altrimenti tenetevelo il vostro campionato». Altri toni a Napoli dove, i Fedayn, vecchissimo gruppo della curva B, hanno puntato sulla benefi­cenza, facendo partire la "Quarantena Azzurra" con l'obiettivo di raccogliere 50 mila euro per aiutare la ricerca nel­la lotta al Covid­19. «Stavolta non so­steniamo i giocatori, ma gli eroi in cor­sia e nei laboratori» spiega il portavoce Alessandro Cosentino. Stessa scelta fatta a Roma, dove gli ultra giallorossi hanno raccolto fondi per l'ospedale Spallanzani. Senza dimenticare però il pallone: per mandare un messaggio forte e chiaro alla nuova dirigenza americana, hanno raccolto migliaia di firme per chiedere il ripristino del vec­chio logo della squadra conia sigla Asr. Poi ci sono gli ultrà diffidati. Che hanno mantenuto le stesse abitudini. Anche adesso sono obbligati ad anda­re in Questura a firmare a orari stabi­liti, come durante il campionato. Per questo decine di gruppi, dalla A alle serie minori, si sono mobilitati chie­dendo che l'obbligo di firma venga ri­pristinato solo quando si potrà torna­re allo stadio. Richiesta respinta. Più aperturista sembrerebbe essere il go­verno che, nella persona del vicemini­stro dell'Interno Vito Crimi ha incon­trato una delegazione di 108 gruppi che hanno chiesto maggiore libertà di tifo. Per Claudio Dionesalvi, 49 anni, 300 trasferte alle spalle, uno dei volti più noti della Cosenza ultrà, che attual­mente si definisce "in son­no" ( «vado ancora ma sen­za la militanza di un tem­po») a reggere meglio lo stop forzato sono i gruppi la cui attività non finisce allo stadio: «Durante la pandemia, in strada a rischiare il contagio per por­tare da mangiare alle famiglie più po­vere c'erano i ragazzi dei gruppi cosen­tini». Dionesalvi non nega però «lo smarrimento» e la «difficoltà a ricollo­carsi in una fase in cui i divieti non sono legati all'ordine pubblico, ma a un atteggiamento del tipo "stai a casa per il tuo bene". Per questo credo che anche quando gli stadi riapriranno, almeno parzialmente, sarà complicato avere a che fare con gli steward che ti diranno "stai lontano dal tuo vicino altrimenti ti arriva un Daspo"».Mondo complesso quello delle curve popolato «da tifosi di calcio a cui del calcio non interessa più di tanto, con­vinti che la politica debba stare lontano dalle curve ma con tifoserie fortemente politicizzate, un mondo tossico che però ha permesso a tanti di loro di sta­re lontano dalle droghe, intolleranti ma anche aperti a tutti, per natura violenti ma anche altruisti», scrive Jones nel libro. Un mondo dove si trova solidarietà tanto quanto crimine, vio­lenza, avidità. «Sembrano chiedersi cosa significhi essere uomini in un mondo in cui i mu­scoli e la mascolinità vengono, per ra­gioni comprensibili, visti con sospetto»sintetizza Jones. Che sottolinea anche«i lati positivi, come la cooperativa de­gli ultrà della Doria e del Genoa che ha permesso a tanti di loro di avere un la­voro». «Perché si picchiano? Semplice­mente perché si divertono a farlo e nes­suno lo nega. Anzi, lo rivendicano».Cosa non agevole da far capire a chi, più o meno consapevolmente, si è ritrovato coinvolto in un sabba di bastonate.«Sento dire che bisognerebbe riportare le famiglie allo stadio ed espellere i ti­fosi più accesi: ma anche gli ultrà sono una famiglia, in senso allargato».Insomma, questa è la quarantena degli ultrà. Stretti tra salute e fede cal­cistica, tra ribellismo congenito e ne­cessità di rispettare le regole. Posate le bandiere, di una cosa sono certi. «Senza di loro il calcio non esisterebbe» con­clude Jones. «Persino i canali televisi­vi hanno realizzato che con questa gentaglia devono fare i conti». Per la cronaca l'Aarhus ha pareggiato con il Randers. Non si segnalano incidenti tra tifosi.


08/09/2020

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