Canaletto, il pittore-detective nel Settecento veneziano tra sesso, intrighi e potere


Lo scrittore di gialli storici spiega perché ha scelto il grande artista come protagonista del suo ultimo romanzo ambientato nella Serenissima. "Esercita da
sempre una fascinazione molto particolare. Non solo per la bellezza assoluta delle tele, ma anche perché della sua biografia si sa davvero poco"

Matteo Strukul su Repubblica.it

 

Il Settecento – che segna l’inevitabile decadenza della Serenissima – racchiude una magia difficilmente ripetibile per Venezia. Sembra quasi che, in quel secolo, i maggiori geni abbiano deciso di darsi appuntamento proprio lì. Fra gli altri, Antonio Vivaldi, Carlo Goldoni, Giambattista e Giandomenico Tiepolo, Giacomo Casanova, Benedetto Marcello, Francesco Guardi e soprattutto l’uomo che cambiò il concetto stesso di pittura: Giovanni Antonio Canal, detto il Canaletto.

Canaletto esercita da sempre una fascinazione molto particolare su molti di noi. Non solo per la bellezza assoluta delle tele e per quella sua capacità, più unica che rara, di saper ritrarre Venezia come nessuno prima e dopo di lui, ma anche perché della sua biografia si sa davvero poco: non ebbe figli e non si sposò, per esempio, e quello che quasi tutti gli storici dell’arte e gli studiosi ripetono è che egli dedicò l’intera sua vita alla pittura. E hanno ragione, naturalmente. Ma proprio perché vi erano molte zone buie della sua esistenza, egli era il personaggio storico perfetto per la penna del romanziere, il quale ben avrebbe potuto riempire i vuoti e ipotizzare scenari verosimili, senza aver la pretesa di rivelare alcunché.

Certo, non avrebbe avuto senso farne un investigatore tout court e la chiave interpretativa migliore mi è sembrata quella di considerarlo al centro di una cospirazione, suo malgrado. Un po’ come avviene a D’Artagnan, Athos, Porthos e Aramis con la faccenda dei fermagli di diamanti. Naturalmente Canaletto, moschettiere non lo era affatto, ma poteva di certo aver dipinto qualcosa che mai avrebbe dovuto. E la Venezia del Settecento, oltretutto, era la capitale dell’intrigo e del potere per eccellenza. Già solo la formidabile e occhiuta macchina giudiziaria bastava a costruire una trama nera con i fiocchi: Inquisitori di Stato, Membri del Consiglio dei Dieci e, soprattutto, la magistratura più spietata, quella dei Signori di Notte al Criminal. Questi ultimi erano sei, come i sestieri di Venezia, vestivano completamente di nero e si aggiravano per le calli, nelle ore che andavano dal tramonto all’alba, con la spada alla cintura, seguiti da un manipolo di fanti o guardie, che dir si voglia. Avevano giurisdizione penale sui fatti criminosi commessi e potevano esercitare la giustizia a propria discrezione anche nei modi più sommari. Uomini e donne erano semplicemente terrorizzati dai Signori di Notte al Criminal.

D’altro canto, a un apparato giudiziario così pervasivo faceva da contraltare una città che era palcoscenico assoluto di vizio e dissolutezza: i ridotti dove si giocava alla basetta o al faraone, il carnevale che durava sei mesi l’anno, con tutti gli eccessi del caso, i bordelli sempre gremiti, i teatri dove nell’ombra si consumavano sfrenati congressi carnali. Si calcola che, in quegli anni, a Venezia, dimorassero non meno di trentamila prostitute o cortigiane a fronte di una popolazione di poco superiore ai centomila abitanti. Se alla promiscuità sessuale si aggiungono le scarse condizioni igieniche, le frequenti epidemie di peste e vaiolo, l’appena nata massoneria e la sempre più affilata avidità del patriziato veneziano, che andava perdendo progressivamente il potere, vedendo scolorare il proprio ruolo privilegiato, ebbene, non si può non costatare come la Venezia del Settecento fosse una città sull’orlo di una magnifica catastrofe. E, per ciò stesso, il luogo perfetto per ambientarvi un tenebroso affare, una faccenda a tinte fosche, che potrebbe rimandare a I misteri di Parigi di Eugène Sue.

Coltivando perciò la dimensione avventurosa propria di Sue e dei romanzi di Alexandre Dumas, Heinrich von Kleist e Aleksandr Sergeevic Puskin, e del teatro di Friedrich Schiller ed Edmond Rostand, non era certo peregrino immaginare che Antonio Canal potesse trovarsi, pur controvoglia, a dover indagare a causa di qualcosa che avesse visto e, malauguratamente, riportato su una tela. E quella tela è il Rio dei Mendicanti, che cattura, nell’intenso chiaroscuro, una delle zone più malfamate della città, tanto più perché collocata nel sestiere di Castello che, tradizionalmente, era il più popolare e turbolento.

Perciò quello che a tutta prima poteva sembrare un azzardo, si rivela invece, per quanto detto, un modo assolutamente naturale di declinare le spinte centrifughe e le lotte per il potere che caratterizzavano la Venezia del Settecento in una narrazione d’inquietudine, avventura, suspense e tensione che, seguendo l’esempio tracciato dagli autori sopra citati, pone al centro l’uomo e l’artista che più e meglio di tutti seppe cogliere l’essenza stessa della Serenissima. 

 

 

 


08/05/2022

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