Wired intervista Juan Pablo Escobar


Pablo Escobar, parla il figlio Juan Pablo: “Narcos è un racconto firmato dalla Dea”

Intervista con il primogenito del più potente narcotrafficante colombiano: “La serie ha fatto di mio padre un eroe, banalizzandone i crimini. Sono vivo per miracolo ma oggi cerco la pace”.

Juan Sebastián Marroquín Santos ha quarant’anni, una moglie e un figlio. È robusto e sorride poco: è abituato a difendersi da un passato ai limiti del concepibile. All’anagrafe di Medellín, seconda metropoli colombiana dov’è nato nel 1977, quel nome però non risulta. Ce n’è un altro al suo posto: Juan Pablo Escobar.

Il figlio maggiore di Pablo Escobar, il più ricco, potente e sanguinario narcotrafficante della storia resuscitato dalla serie di Netflix, ha infatti cambiato identità negli anni successivi alla morte del padre: dopo essere miracolosamente uscito vivo dagli intrecci che seguirono quel 2 dicembre 1993 – quando una squadra della polizia colombiana scovò e uccise il re della coca a Los Olivos, un quartiere borghese della sua città – è fuggito con madre e sorella fra Panama, Nicaragua, Svizzera, Mozambico per stabilirsi infine a Buenos Aires.

Ancora adolescente, ha sistemato i conti con amici e nemici del patrón distribuendo ciò che rimaneva dell’immenso tesoro accumulato dal genitore e ha troncato con grandi rischi ogni legame con i cartelli colombiani e la famiglia del padre.

Dopo quei mesi labirintici, cinque anni di silenzio sembravano avergli offerto un’inedita normalità. E un percorso da architetto, che è il suo mestiere di oggi. Poi il caso – un furto nella casa argentina che ne svela la reale identità verso la fine degli anni ’90 – lo ha costretto a riprendersi almeno in parte quel complicato ruolo.

Da anni il primogenito dello zar della polvere bianca aveva però imboccato un tormentato percorso di pacificazione e di memoria responsabile.

Prima con un documentario, firmato da Nicolas Entes, Sins of my father nel 2009, poi con due libri, frutto dei ricordi di un bambino cresciuto fra folli lussi ed enormi pericoli ma anche di un attento lavoro d’indagine: Pablo Escobar. Il padrone del male nel 2014 e Pablo Escobar. Gli ultimi segreti dei Narcos raccontati da suo figlio, entrambi pubblicati in Italia da Newton Compton Editori.

Il secondo, l’ultimo uscito, è stato presentato alla fiera romana Libri come. Dal ruolo di Cia e Dea, l’antidroga americana, nella caccia al padre ai rischi democratici di scendere a patti con la criminalità per combattere il male fino a Narcos: di questo e altro abbiamo parlato con Escobar in una stanza del monumentale complesso progettato da Renzo Piano.

Sono trascorsi 23 anni dalla morte di suo padre, uno dei più sanguinari criminali di tutti i tempi: la distanza ha consentito un’analisi più razionale e profonda delle scelte di Pablo Escobar o ha invece in qualche modo offuscato le enormi responsabilità?
“Credo che la figura di mio padre sia stata utilizzata male. Si è costruita un’immagine eroica di una persona che non doveva essere intesa come tale. In qualche modo è stato banalizzato ciò che ha davvero fatto ed è stata data la priorità ad aspetti che non esistevano”.

In fondo il tempo non ha fatto così bene all’analisi dei fatti.
“Questo è avvenuto nelle serie televisive, non nei miei libri. Io ho svolto un’indagine seria e ho raccontato la verità di quanto ho vissuto. Non ho voluto che il passato fosse dimenticato”.

Dalla sua testimonianza esce un uomo in grado di distinguere con assoluta chiarezza la sfera famigliare, a cui dedica insegnamenti di principio e attenzioni, dalle sue feroci attività criminali. Forse a questo si deve la sua capacità, Juan Pablo, di reinventarsi una vita a 17 anni nonostante tutto?
“È anche il risultato dei valori con cui mio padre e mia madre mi hanno cresciuto. Nella mia famiglia non è mai mancato l’amore. Se mio padre non avesse separato il più possibile le sue due esistenze, sarei morto da tempo. Mantenerci ai margini fu una decisione saggia per isolarci ma pur in questo modo non potemmo non essere colpiti”.

Oltre all’angosciante labirinto dei primissimi mesi seguenti la morte, nei quali la sua vita e quella di sua madre e sua sorella erano in bilico, quali sono state le sue difficoltà più profonde negli anni seguenti? Lei non è suo padre ma cosa significa convivere con l’eredità di un criminale che ha fatto uccidere 4mila persone?
“Sono stato molti anni in silenzio, in esilio da Panama all’Argentina. Ho riflettuto su ciò che mio padre aveva e non aveva fatto. Ho maturato le idee che dovessi farmi su di lui. Ho scelto una carriera, come quella in architettura, che ha a che fare col costruire, non col distruggere. Il frutto di questa riflessione è nei libri e nel documentario. Da oltre la metà della mia vita vivo fuori dal mio Paese”.

A proposito della Colombia: lei e la sua famiglia come siete considerati? Il suo lavoro di confronto col passato è stato apprezzato?
“I colombiani che ho incontrato mi hanno ringraziato per il messaggio dei miei lavori e per il modo in cui racconto la storia. Per aver difeso e dato valore alla pace. Molti mi dicono che sentono che io rappresento i colombiani per bene”.

Ma se lei volesse, potrebbe tornare domattina in Colombia?
“Sì. Ma non potrei rimanerci a lungo".

Perché? Ci sono ancora dei conti in sospeso?
“Con quelli che hanno il potere di sparare, poche persone. Continuo a cercare la pace anche con loro, ho invitato tutti a confrontarci”.

Come si conciliava l’ispirazione di un uomo che faceva saltare in aria aerei, parlo dell’attentato all’Avianca 207 del 1989 destinato al candidato Cesar Gaviria Trujillo, e al contempo costruiva scuole e distribuiva regali ai bambini dei quartieri poverissimi di Medellín?
“Le radici popolari di mio padre erano assolutamente genuine. Mio padre era stato molto povero e non si è mai dimenticato delle origini. I soldi non gli fecero scordare la sofferenza di molte persone in Colombia. Ha alleviato fame e mancanza di alloggio di molti colombiani. Ovviamente è stato un uomo pieno di contraddizioni. Devo accettare questa realtà dei fatti, non ho modo di cambiarla. Costruiva campi sportivi affinché i ragazzi non consumassero droga col denaro della droga”.

Lei si è sentito più testimone o protagonista di quegli anni?
“Testimone, come molti colombiani. Non avevamo modo di cambiare ciò che avevamo intorno. Per quanto potessimo provarci, non ci siamo riusciti”.

Narcos è la serie di Netflix che racconta la parabola di suo padre. Ha già elencato in un’occasione decine di punti che non corrispondono. Ma c’è una cosa che l’ha davvero convinta e una che ha detestato?
“Nessuna. Né da una parte né dall’altra. Si tratta di una versione della Dea, non è la versione reale. Una versione politica, una storia raccontata dall’establishment statunitense. Non è un prodotto serio su Pablo Escobar: hanno venduto e hanno mentito molto bene su mio padre. Li ringrazio solo perché mi hanno aiutato a vendere tanti libri a coloro che davvero vogliono conoscere la verità”.

Ma lei ritiene di aver svolto un rigoroso lavoro storico, scientificamente parlando?
“Non lo credo solo io ma anche il mio editore, il più grande in lingua spagnola (Planeta DeAgostini, nda). Non avrebbero compromesso la serietà del loro marchio con una storia falsa”.

Narcos avrà una terza e una quarta stagione, che racconteranno gli sviluppi del narcotraffico internazionale dopo la fine del cartello di Medellín: cosa pensa della popolarizzazione di vicende criminali così vicine a noi e in molti ancora floride e in corso?
“Corriamo il rischio che stiamo vivendo. Che le nuove generazioni vogliano diventare Pablo Escobar. Hanno presentato una versione che fa sì che tutti vogliano essere come lui. Ci sono persone che mi scrivono sui social network, giovani che non conoscevano l’Escobar trafficante e terrorista e che dopo il successo della serie si pettinano o si vestono come lui”.

A un certo punto contro suo padre e il suo esercito si raccolse un’opposizione a ogni livello: dalle intelligence statunitense e colombiana alla Polizia nazionale locale fino a Los Pepes, il gruppo paramilitare dietro al quale secondo molti si nascondevano i finanziamenti e il supporto di agenzie americane come Dea e Cia: com’è andata quella specie di guerra civile? 
“Le alleanze che il governo strinse con i criminali per combattere mio padre hanno reso l’amministrazione tanto criminale quanto mio padre. L’hanno condotta al suo livello. D’altronde i Los Pepes e l’intelligence americana erano la stessa cosa. Usando le parole di uno dei figli di Galan (allude a Luis Carlos Galan, avversario dei cartelli e candidato presidente fatto uccidere da Escobar nel 1989, nda), c’è stato un momento in cui non sapevi da dove arrivasse il pericolo. Morto mio padre, questi organismi sono rimasti agganciati alle istituzioni così in profondità che la violenza è cresciuta incredibilmente. In realtà avrebbero dovuto scegliere il cammino della pace e del dialogo”.

Questa promiscuità è anche alla base del fatto che diversi Paesi sudamericani abbiano molta strada da fare verso la democrazia?
“Sì, e se consideriamo anche che la Colombia è la democrazia più antica d’America e stiamo ancora messi così abbiamo davvero molto da impegnarci”.

Lei è a favore della legalizzazione delle droghe: ma se conducesse a livelli diversi di mercato nero?
“Il proibizionismo è una politica incendiaria: quando conoscerà un narcotrafficante che sia favorevole alla legalizzazione me lo presenti. Tiferebbe infatti per la fine del suo potere economico e militare. No, non credo ai diversi livelli: sarebbe difficile competere con una cocaina di alta qualità ed economica, i criminali si dedicherebbero ad altri affari. Quando gli Stati Uniti hanno legalizzato le bevande alcoliche sono scomparsi i reati legati al proibizionismo e anche le conseguenze nefaste del consumo di sostanze adulterate. Questa è ovviamente una mia posizione: io sono architetto, mi preoccuperò solo se dovessero proibire il cemento”.

Dopo tutti questi anni di sangue e poi di tormenti, lei oggi è un uomo felice?
“Sono più miliardario che mai e non posseggo alcun denaro. Sono un uomo libero e vivo in tranquillità. Al contrario, tutta la fortuna di mio padre non è riuscita a darmi neanche un minuto di pace”.

Simone Cosimi

Fonte: Wired,  20/03/2017


20/03/2017

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