Vita di Bernardo Gui. Inquisitore erudito


La figura del passato. Oltre 900 sentenze emesse a suo nome, 45 condanne a morte. Il domenicano reso celebre da «Il nome della rosa» ha anche teorizzato — in un manuale - le regole per istruire processi e svolgere interrogatori. Frate dall'età di 19 anni, ambizioso e colto, dotato di grande intelligenza, scrisse su pergamena oltre trenta opere.

di Marcello Simoni


Nella sua apparente uniformità, il concetto di inquisizione risulta a dir poco sfuggente. Si parla infatti di un fenomeno storico-religioso così vasto ed eterogeneo da poter asserire che siano esistite non una ma molte inquisizioni. Non solo a causa dell’impatto mutevole che questa istituzione ebbe nell’ambito della lotta anti-eretica nell’arco di circa settecento anni, ma anche in relazione ai diversi contesti geografici, politici e culturali in cui essa operò. Se l’inquisizione dell’età moderna si distingue per un aspetto maggiormente burocratico, scisso in tre ceppi paralleli (romano, spagnolo, protestante), quella del tardo Medioevo potrebbe invece definirsi una fase di incubazione sfociata in un’autentica campagna persecutoria.  
Fase, questa, spesso associata alla figura di Bernardo Gui.
Dà da riflettere l’importanza acquisita negli ultimi tempi da questo nome. Di certo Bernardo Gui fu inquisitore e senza dubbio la sua Practica Inquisitionis heretice pravitatis rientra tra i manuali inquisitoriali più completi ed esaurienti dell’autunno dell’Evo di Mezzo. Resterà deluso, tuttavia, chi dovesse spulciare tra le pubblicazioni antiche e recenti in cerca di sue notizie.
Al di là dell’apparizione nel Nome della rosa e di alcuni saggi storici – soprattutto di studiosi francesi e per lo più destinati agli “addetti ai lavori” – sul dotto inquisitore nato nel Limousin intorno all’anno 1261 è stato scritto ben poco. Anche le notizie sulla sua vita sono frammentarie, e tuttavia agevoli da ripercorrere attraverso la testimonianza di fonti parallele, ovvero gli elenchi dei capitoli dell’Ordine Domenicano – cui Gui appartenne – tenutisi a cavallo tra il Due e il Trecento, nonché la documentazione relativa agli incarichi che lo stesso fra’ Bernardo svolse nel corso della sua “carriera”.
Nato a Royères, presso i pascoli di La-Roche-l’Abeille, da una famiglia nobile, Bernardus Guidonis fu ammesso ancora fanciullo al convento domenicano di Limoges e, giovanissimo, ricevette la tonsura. Un ingresso così prematuro nel mondo dei frati predicatori allude forse a una condizione di oblato, ovvero, secondo la consuetudine medievale, a quei figli dati in offerta (oblatio) a una comunità religiosa dai genitori. Come accadde, per esempio, anche al teologo tedesco Gotescalco il Sassone.
Quel che ci è dato conoscere di questa fase della vita di Gui riguarda soprattutto il contesto conventuale e borghigiano in cui egli fu educato.
L’attuale città di Limoges si divideva all’epoca in due abitati indipendenti: la Cité, in cui sorgevano la cattedrale e il palazzo vescovile e lo Château, famosa meta di pellegrinaggi attratti dal sepolcro di san Marziale. In questa seconda parte dell’insediamento trovavano sede anche molte botteghe artigiane, fra cui orefici e produttori di smalti. La situazione non è dissimile a molti contesti coevi in cui il nascente ordine domenicano (e pure francescano) impiantava i suoi conventi, destinati a crescere insieme alle comunità di fedeli che li circondavano e che fungevano da humus devozionale. Ed è proprio qui, nell’Entre-deux-villes di Limoges, che Bernardo Gui, a diciannove anni di età, giurò obbedienza all’ordine dei fratres praedicatores.
In quel momento il suo futuro era ancora incerto. La sua indubbia intelligenza e la sua vocazione all’erudizione lo portarono tuttavia ben oltre gli studia logica et naturalia previsti come “formazione di base” per i novizi domenicani, facendogli presto conseguire un lettorato in logica a Brives, nell’Alta Loira, e spingendolo a perfezionare la sua formazione teologica presso vari i studia dell’Ordine nel sud della Francia.
Da allora Bernardo Gui non smetterà più di viaggiare. Nell’ultimo decennio del Duecento lo troviamo presso lo Studium generalis di Montpellier (sede tra l’altro di una ricchissima biblioteca), e poi, in qualità di magister, di lettore di teologia e addirittura di priore, in almeno quattro chiostri domenicani della Linguadoca: Limoges, Albi, Carcassonne e Castres. All’inizio del nuovo secolo verrà quindi nominato predicatore generale del capitolo provinciale di Tolosa e, dal 1305, priore di Limoges: il convento in cui aveva ricevuto la tonsura.
Sembra dunque prospettarsi per fra’ Bernardo una lunga carriera di studioso, tanto più che è proprio a questo periodo che risalgono i suoi primi scritti. Che fioriranno copiosi sul suo scrittoio, a dispetto dei mille impegni cui il giovane frate venuto dal Limousin dovrà presto far fronte. Siamo, in effetti, dinanzi a uno dei compilatori più prolifici del Medioevo e soprattutto al miglior storico domenicano della sua epoca: un erudito che farà scorrere il calamo su centinaia di pergamene destinate ad accogliere oltre trenta opere che vanno dai trattati di storia civile e religiosa all’agiografia, al diritto e alla liturgia. 
Bernardo Gui è, in altre parole, uno dei filtri attraverso cui ci è possibile conoscere il Medioevo religioso francese. D’altro canto, dal 1306 la sua vita cambierà radicalmente a causa della nomina di inquisitore generale di Tolosa conferitagli da papa Clemente V. Una nomina forse voluta e inseguita con tenacia febbrile. Se del nostro frate limosino è soltanto nota l’acribia riversata nello studio, è infatti plausibile supporre che egli sia stato un uomo ambizioso, attratto dalle alte forme del potere spirituale al punto da avvicinarvisi il più possibile.
Non pago infatti del suo difficile mandato inquisitoriale (svolto tra il 1306 e il 1323), egli compì anche, in qualità di nunzio ecclesiastico, diverse missioni pacificatrici in Lombardia, in Toscana, nelle Fiandre e a Parigi, per poi assumere il ruolo di procuratore dell’Ordine domenicano presso l’appena nata curia di Avignone.
Sono questi gli anni in cui fra’ Bernardo diede alla luce la Practica Inquisitionis, un manuale autorevole, uno dei più esatti dedicati allo studio e all’adempimento dell’ufficio inquisitoriale. Un capolavoro del Medioevo, se interpretato come un documento rappresentativo di una specifica forma mentis nata in seno a uno specifico contesto storico. Fra le pagine di questo libro – secondo soltanto all’inappuntabile Directorium Inquisitorum composto cinquant’anni più tardi da Nicolas Eymerich – trovano spazio, infatti, non solo i formulari dei verbali da memorizzare per i novelli inquisitori, ma anche un prontuario di interrogatori corredato da un elenco delle principali correnti ereticali diffuse sullo scorcio del Trecento nel sud della Francia e nel nord Italia: i Manichei (ovvero i Catari o Albigesi), i Valdesi (o Poveri di Lione), gli Pseudo-Apostoli (tra il quali viene citato anche Dolcino da Novara), i Beghini, insieme ai “falsi” giudei convertiti e ai maghi (sortilegi).
La minuziosità dall’autore rasenta la precisione enciclopedica, testimoniando tra l’altro il distacco emotivo dello studioso nei confronti di una materia (l’eresia) da lui tanto aborrita. La sua analisi è puntuale, le parole scandite dalla fredda luce del raziocinio.
Forse furono, quelli dedicati allo scrittoio, gli unici momenti quieti della vita di Gui. Una vita solitaria, divisa fra un incarico e l’altro, costantemente inscritta nell’orbita di un’Avignone che proprio in quegli anni era diventata la sede dei papi e che vigilava come un faro dalla luce rosseggiante sulle eresie che fiorivano nelle terre circostanti. Eresie a cui l’inquisitore sceso dai pascoli del Limousin diede la caccia come un instancabile Domini canis a Tolosa, ad Albi, a Carcassonne, a Pamiers e in qualsiasi altra borgata della Linguadoca in cui lo portassero le sue indagini di inquisitore generale.
Più di novecento furono le sentenze emesse a suo nome e quarantacinque le persone che condannò a morte. Ma forse, con gran delusione di chi ha letto il capolavoro di Umberto Eco, fra questi sventurati non ci fu nessuna strega. Fra’ Bernardo non fa uso nemmeno una volta, nei suoi scritti, di questa parola. Nel suo manuale si fa menzione soltanto alle fate: le femmine evanescenti che vagavano di notte nei boschi e solevano manifestarsi unicamente ai loro amanti.
Fate che forse il nostro inquisitore sognò di tanto in tanto nelle sue notti inquiete. Magari in vecchiaia, quando gli fu assegnato un vescovato a Tuy, in Galizia (dove mai si recò), oppure nel castello di Lauroux, fra i monti e il mare dell’Hérault, dove si spense, a circa settant’anni, il 30 dicembre 1331.

Fonte: La Lettura 24/02/2019

BERNARDO GUI, Il manuale dell'inquisitore
Introduzione storica di Marcello Simoni

 


24/02/2019

Scarica file PDF allegato