Tre uomini e due spari


Può capitare che una fantasia rimasta silenziosa per molti anni diventi all'improvviso un piano possibile da realizzare. Magari a causa di qualcosa di inaspettato. Se succede, allora, meglio farsi trovare pronti...

di Robert Bryndza

Negli ultimi anni, Margaret Valence aveva spesso fantasticato sull’ipotesi di uccidere suo marito, John. Quarant’anni di matrimonio infelice e diversi suoi flirt con altre donne l’avevano resa una donna depressa e incapace di scorgere una via d’uscita. Aveva resistito per il bene dei loro due figli, ma ormai loro erano cresciuti e avevano abbandonato il nido, così Margaret aveva perso la voglia di lottare. Si era rassegnata a pensare che per il resto della propria vita avrebbe vissuto all’ombra di un uomo arrogante e prepotente.

Sia John che Margaret venivano da una famiglia ricca e possedevano una grande tenuta nelle campagne del Kent, in Inghilterra. La casa era stupenda, un edificio a due piani con il tetto spiovente, circondato da un giardino recintato. Prendersi cura del giardino era la gioia di Margaret, che ne era orgogliosissima: il prato era immacolato come un campo da bocce e le aiuole erano piene di fiori colorati e profumati. Fino a quel drammatico mercoledì, l’unico atto criminale che avesse mai compiuto era stato costringere il sistema di irrigazione a innaffiare le sue adorate primule.

Lei stessa non credeva di andare fino in fondo e riuscire a uccidere il marito. Le sue erano solo fantasie. E poi aveva paura di finire in prigione. I suoi figli ormai erano grandi e di rado andavano a trovarla, ma sperava che un giorno avrebbero avuto a loro volta dei figli e che li avrebbero riportati all’ovile. Finire in prigione avrebbe significato perdere qualsiasi speranza di poter giocare con i suoi nipotini.

Era un assolato mercoledì pomeriggio. Margaret e John avevano finito di pranzare in soggiorno e stavano guardando una replica di Monk, quando a un certo punto sullo schermo della televisione apparve la griglia delle immagini in bianco e nero riprese dalle telecamere a circuito chiuso. John stava sonnecchiando nella sua poltrona preferita, ma si tirò subito a sedere quando il programma si interruppe e si sentì il ronzio del video che cominciava a registrare. John odiava la tv, non faceva che criticarla; l’unica cosa che sembrava gli interessasse guardare erano le riprese delle videocamere di sicurezza con sensore di movimento. Si sentiva potente, come un sovrano che controlla i suoi possedimenti. Si alzò e si avvicinò allo schermo, scrutandolo con attenzione. Nel quadratino dell’angolo in alto a destra si vedeva una piccola macchina sportiva che percorreva il vialetto e aveva così attivato la telecamera del cancello principale.

«Oh, è Lesley!», disse John, piegandosi per vedere più da vicino. La sua sorpresa artefatta risultò convincente.

Era un uomo alto, un tempo era stato bello, ma le sue spalle si erano ingobbite e aveva una pancia enorme, che strabordava sulla cinta dei pantaloni. Aveva ancora una chioma folta, nonostante i suoi sessantotto anni, e questo gli conferiva un aspetto giovane e virile. I capelli di Margaret, in compenso, erano fini come lo zucchero filato e le stavano appiccicati allo scalpo roseo.

John si ravviò i capelli allo specchio e si sistemò la camicia.

«Prepara il tè. Lo berremo fuori», disse, correndo alla porta. Margaret rimase in soggiorno e osservò Lesley parcheggiare in cortile e dirigersi verso l’ingresso sul retro. Avevano la stessa età, ma Lesley Mandeville era attraente e sicura di sé. Erano cresciute nella stessa cerchia, una cerchia in cui vigevano le regole dell’alta borghesia di campagna. L’apparenza era tutto e mostrare le proprie emozioni tremendamente volgare.

Mai lamentarsi, mai dare spiegazioni.

Nel corso degli anni Margaret aveva chiuso un occhio sulle tante storielle extraconiugali di suo marito. Una volta che lei ebbe sfornato i due figli, “l’erede ufficiale e quello di riserva”, come si dice in Inghilterra, in società ci si aspettava quasi che John si facesse subito l’amante. Anche a Margaret sarebbe stata perdonata una relazione sentimentale, purché discreta.

Lesley era stata la sua migliore amica sin da quando erano bambine, e lo era ancora, almeno così fingevano entrambe. Margaret si trascinò a salutarla. Lesley sembrava ancora più snella e affascinante del solito con quell’abito chiaro, lungo e vaporoso, i sandali con il tacco di sughero e il cappello estivo floscio. Stava abbracciando John e lui le stava bisbigliando qualcosa, che la fece ridacchiare. Quando si staccarono, Margaret notò il risultato dell’ultimo “soggiorno alla spa” dell’amica: due nuove protesi al seno. I suoi seni erano grandi e impertinenti e la mano di John era rimasta appoggiata lateralmente al sinistro e lo stava massaggiando. Non appena vide Margaret, Lesley si scostò.

«Cara!», esclamò, andando ad abbracciarla. I seni nuovi erano molto sodi rispetto al resto del corpo. Lesley si ritrasse e osservò Margaret con i duri occhi verdi, bordati dalle ciglia finte.

«Sono venuta a portarvi dei documenti fiscali da parte di Terry», disse, in tono perentorio. Le labbra sottili erano dipinte di rosso. Margaret annuì, obbediente. Il marito di Lesley era il loro commercialista, e non c’era alcun bisogno che fosse lei a portare quei documenti. Rimasero in piedi all’ingresso per un attimo, in imbarazzo. Lesley sorrideva sfacciata e John non stava facendo alcun tentativo di nascondere il fatto di non riuscire a staccare lo sguardo dal suo nuovo e prorompente decolleté.

Dieci anni prima, quando Lesley si era rifatta il seno per la prima volta, Margaret aveva preso il ricevitore in cucina e aveva ascoltato una loro conversazione.

«Non vedo l’ora di affondarci la faccia», aveva detto lui.

«E allora liberati di Margaret. Potremmo farci una sveltina pomeridiana».

«Non è così facile».

«Magari si rompesse un’altra volta il malleolo. La settimana in cui è stata ricoverata in ospedale ce la siamo spassata», aveva sghignazzato lei.

L’odio che Margaret provava per Lesley era sepolto così in profondità che qualche volta le risultava persino difficile rievocarlo, ma quel giorno tornò a galla.

Dopo che ebbe preparato loro il tè, e loro si furono sistemati in giardino, Margaret tornò dentro a sparecchiare. In tv c’era un programma di attualità ma, non appena si attivò un’altra telecamera, l’immagine sparì. Un grosso furgone bianco con lo sportello laterale scorrevole stava percorrendo a tutta velocità il vialetto. Margaret individuò chiaramente tre uomini seduti nell’abitacolo. Portavano tutti un passamontagna. Parcheggiarono in cortile, accanto alla macchina sportiva di Lesley, e smontarono. Due erano alti e magri, il terzo era più basso. Indossavano tutti una tuta da ginnastica e lei si contrasse lo stomaco quando notò che uno degli uomini alti aveva un fucile, mentre quello basso un lungo coltello. Aprirono la portiera del furgone ed estrassero dei grandi sacchi. Margaret esaminò velocemente le altre immagini delle telecamere di sicurezza. In giro non c’era nessuno. I dipendenti dell’azienda agricola se n’erano andati dopo pranzo. L’ufficio, in cui c’era una cassaforte, era ai margini del cortile. I tre uomini provarono ad aprire la porta, che non era chiusa a chiave, ed entrarono.

Margaret stava per correre da John, poi però un piano prese forma nella sua mente. Era un piano feroce e vittorioso, che le tolse il fiato. Avrebbe potuto davvero farlo? Voleva farlo?

Lanciò un’occhiata fuori dalla finestra, in giardino. John e Lesley sedevano vicini, il tavolo disseminato dei resti di tè e biscotti. Lui si stava protendendo in avanti e le stava dicendo qualcosa, lei rise e gli posò una mano sulla gamba.

In quarant’anni non erano mai stati rapinati. La villa si trovava in mezzo ai campi della campagna del Kent, e non c’erano vicini per chilometri e chilometri. Si diceva in giro che c’era una gang di mafiosi albanesi che colpiva le grandi ville del Kent durante il giorno, minacciando i proprietari con armi da fuoco e derubandoli. Rapinare le case di campagna era più facile di giorno che di notte, quando le strade non erano illuminate e ogni rumore risultava amplificato. L’ora della siesta pomeridiana, invece, era il momento perfetto. Margaret aveva moltissimi gioielli, che appartenevano alla sua famiglia da generazioni. C’erano anche pezzi di antiquariato e argenteria, e poi John teneva in casa molti contanti.

Margaret tornò a guardare l’ufficio dalle riprese delle telecamere a circuito chiuso. I rapinatori erano ancora lì, ma era una stanza piccola, quindi non aveva molto tempo a disposizione.

Uscì dal soggiorno con piglio deciso e salì le scale, diretta verso lo studio di John. Era sempre fiocamente illuminato e quel giorno non faceva differenza, le pesanti tende di velluto schermavano l’accecante luce del sole. Margaret andò all’armadietto dei fucili e prese un paio di guanti di pelle dal ripiano della scrivania. Erano un po’ grandi per lei – John usava sempre i guanti quando maneggiava le sue amate pistole. Margaret li indossò, la pelle fredda ed elastica a contatto con le sue mani, poi si voltò verso la fila di fucili protetti dal vetro. Trovò la chiave, nascosta nel primo cassetto della scrivania, e aprì l’armadietto. Non toccava quelle armi da molto tempo: dieci anni per essere precisi, quando era venuta la polizia a controllare i permessi, e lei aveva dovuto portarle avanti e indietro perché gli agenti le esaminassero, sotto lo sguardo attento di John. A parte circostanze del genere, aveva il divieto di toccarle. John si sarebbe arrabbiato moltissimo.

Scoppiò a ridere. La sua risata aveva un suono strano, gorgogliante. Aveva la mente lucida e sgombra. Era inspiegabilmente calma. Il tempo aveva preso a scorrere più lentamente e lei si sentiva padrona della situazione.

L’armadietto profumava di legno e olio, con un debole retrogusto di fumo. Margaret prese il primo fucile. Il caricatore scivolò senza intoppi. Aprì un altro cassetto ed estrasse due proiettili da una scatola, poi li inserì nel caricatore. Ne prese altri due, se li mise nella tasca dei pantaloni e chiuse il cassetto.

La risata di Lesley giù in giardino interruppe il silenzio. Quel suono, rat-a-tat-tat, le aveva sempre dato sui nervi. Visualizzò di nuovo l’immagine di John con la mano sul seno di lei e poi quella di Lesley con la mano sulla gamba di lui. La loro intimità la feriva più del fatto che facessero sesso, cosa che probabilmente continuava a succedere. Si toccavano alla luce del sole, in maniera possessiva e ostile.

Scese al piano di sotto quanto più in fretta possibile, considerato il ginocchio malandato, il fucile in braccio, con il caricatore ancora aperto. I due proiettili in più le tintinnavano in tasca. I granelli di polvere turbinavano in aria e le scale scricchiolavano.

Si fermò sull’ultimo gradino e si guardò riflessa nel grande specchio a parete. Nel vedere una donna con gli occhi grandi e il viso rugoso, i pochi capelli appiccicati alla fronte, il corpo un tempo minuto ormai quasi sferico, rimase scioccata. La colpa era sua tanto quanto di John. Perché non l’aveva lasciato anni prima? Perché non aveva quantomeno fatto qualcosa? La vita aristocratica prediligeva sempre gli uomini. Erano loro i proprietari, coloro che detenevano il potere.

Non più, quella era la sua occasione. Attraversò il soggiorno e vide sullo schermo della tv che i tre uomini erano usciti dall’ufficio e stavano caricando uno dei sacchi sul furgone.

I piatti del pranzo erano ancora sul tavolo. Una mosca si era posata sul bordo e stava mangiando un pezzetto di pomodoro, strofinando le zampette anteriori.

Margaret si fermò davanti alla portafinestra.

«Oh, sei tremendo!», ridacchiò Lesley. Margaret colse il tono voglioso della risposta di John e uno scoppio di risa. Con la mano guantata, girò la maniglia e aprì la porta, poi fece un passo indietro. Imbracciò il fucile e chiuse il caricatore con un click.

Lo tenne in posizione, il dito sul grilletto, il calcio sulla spalla.

Sentì un cane abbaiare, il rumore proveniva dal porticato: i ladri erano davanti alla porta della villa, forse già dentro. Margaret uscì in giardino. Lesley e John sedevano di fianco, lei aveva una sigaretta in mano. L’aria era ferma e il fumo saliva dritto, tracciando una linea sottile. I fiori ondeggiavano nelle aiuole. I cani abbaiarono di nuovo.

Il primo a vederla fu John.

«Cristo! Che diavolo sta facendo? Le avevo detto di non toccare i miei cazzo di fucili». Non la prendeva sul serio nemmeno mentre lei gli stava puntando un’arma alla testa. Lesley alzò lo sguardo da sotto la tesa floscia del cappello. Capì tutto prima di John e le sue labbra truccate si schiusero formando una perfetta O. Margaret premette il grilletto, mirando alla sua bocca adultera, ma quando esplose il colpo, l’arma rinculò e, vista la distanza ravvicinata, il proiettile colpì Lesley alla gola, staccandole di netto la testa, che finì nell’aiuola, con tutto il cappello. Il rumore dello sparo fu assordante e John sbatté le palpebre, sconvolto. La camicia azzurra era sbottonata sul collo e i bianchi peli del petto si macchiarono di uno schizzo di sangue. Margaret non diede né a lui né a sé stessa il tempo di pensare: rimise in posizione il fucile ed esplose un altro colpo. Un enorme buco gli si aprì sul petto, lui cadde giù dalla sedia e finì sul prato.

Margaret rimase immobile per un istante, mentre il fumo dello sparo svaniva. Le fischiavano le orecchie. Il corpo di Lesley era scivolato dalla sedia ed era finito con un tonfo sull’erba, accanto alla sua testa. Margaret prese gli altri due proiettili e ricaricò l’arma. Quando si voltò, vide i tre uomini in piedi sulla soglia della portafinestra. I loro occhi scintillavano attraverso i buchi del passamontagna. Il più alto, che indossava dei pantaloni della tuta grigi e una felpa con la zip rossa, imbracciò il fucile. Il più basso, vestito dalla testa ai piedi di blu, soppesò il pugnale. Il terzo, che aveva una tuta bianca di marca e il passamontagna anch’esso bianco, spostò il peso da un piede all’altro. Le loro belle scarpe da ginnastica si erano sporcate di terra.

Margaret si voltò e si diresse verso la portafinestra, il fucile ancora in posizione.

«Non puntatemi contro un’arma, a meno che non siate pronti a usarla», disse. Alla sua voce era successo qualcosa. Era forte e chiara. Per la prima volta da anni, si sentiva completamente calma e sicura di sé. L’adrenalina le scorreva nelle vene. Voleva continuare a provare quella sensazione. I tre uomini sembravano inchiodati sul posto. Il più alto continuò a tenerla sotto tiro, ma gli tremavano le mani.

«Che volete?», chiese Margaret. Lui fissò la carneficina appena compiuta in giardino e aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono. Aveva i denti macchiati di marrone e pieni di otturazioni. «Siete venuti a rapinarmi, giusto?»

«Sparale», disse l’uomo che non era armato.

«Se mi uccidete non scoprirete mai la combinazione della cassaforte», replicò lei.

«Cosa?», disse quello con la pistola.

«Siete venuti a rapinarmi, ed è questo che farete. Adesso, svuota il caricatore della pistola», fece Margaret, avvicinandosi a lui e usando la canna del suo fucile per fargli abbassare la mira. «Forza, svuotalo».

Lui cedette, abbassò la canna del fucile e aprì il caricatore, poi tolse i proiettili e li buttò sull’erba.

«Tu. Tira il coltello sul prato. Non sto scherzando a proposito della cassaforte. Se fate come vi dico, diventerete molto ricchi».

«Sei una maledetta pazza», disse il più basso dei tre, che ancora brandiva il pugnale.

«Già, abbastanza pazza da permettervi di prendere i miei gioielli, e abbastanza pazza da uccidere, come puoi vedere. Scegliete voi. Avete ancora i passamontagna, non riuscirei mai a identificarvi».

I tre uomini si scambiarono un’occhiata. Il più alto annuì e quello basso tirò il coltello sul prato. Quello stesso prato che lei aveva pazientemente annaffiato e seminato e trattato e curato. Continuò a tenerli sotto tiro. I pensieri le frullavano in testa. Loro erano in tre e lei aveva solo due proiettili. Spinse quella considerazione in un angolo della sua mente.

«Fate come vi dico e nessuno si farà male. Voltatevi e tornate indietro». I ladri si girarono e attraversarono il soggiorno. «Testa alta e continuate a camminare. Dopo il salotto c’è una porta», disse Margaret usando la canna del fucile per indicare la direzione. Li ricondusse nello studio di John, fino alla grande cassaforte in metallo che stava in un angolo. Il più basso dei tre compose la combinazione e la aprì.

Dentro c’erano conservate delle scatoline di velluto rosso e blu che contenevano il suo anello di fidanzamento e la fede nuziale, entrambi di diamanti, tre paia di orecchini di diamanti e una collana e un braccialetto abbinati. Per lei non significavano nulla. Dopo quarant’anni i diamanti non ti restituiscono l’amore, e John non le permetteva mai di indossarli fuori di casa. A lui non interessava quanto fossero belli, valevano di più chiusi in cassaforte.

Il più alto dei tre prese le scatoline e le aprì una per una: i suoi occhi si illuminarono quando vide cosa contenevano. Poi le mise in uno dei sacchi che si erano portati. La cosa durò qualche minuto, il tempo veniva scandito da un orologio che ticchettava in sottofondo.

Margaret stava cominciando a sudare, tenere il fucile puntato era faticoso, e la spalla le faceva male nel punto in cui sosteneva il calcio. La canna tremava.

«Fate più in fretta», disse.

Sotto le scatoline di velluto c’erano venticinquemila sterline in mazzette di banconote da cinquanta.

Gli uomini si bloccarono. Si scambiarono uno sguardo eloquente, o qualcosa di simile. Margaret si chiese se fossero fratelli. All’improvviso il più basso le tolse di mano l’arma, la girò e gliela puntò alla testa. Margaret fece un passo indietro, mentre lui gliela premeva contro la guancia.

Gli altri due sorrisero e andarono all’armadietto con le armi appeso alla parete. Il ladro con la tuta bianca prese un fermacarte e lo usò per rompere il vetro, dopodiché agguantarono i quattro fucili restanti e li ficcarono nel sacco.

«Tre omicidi fanno di voi dei serial killer», commentò Margaret, la canna del fucile che le premeva contro la mandibola. «E i poliziotti avranno quindi più risorse a disposizione per trovarvi, cosa che proveranno a fare». Tentò di decifrare i loro sguardi attraverso i buchi del passamontagna. Nonostante avesse perso il fucile, si sentiva ancora calma e padrona di sé. «Guardate la mappa appesa sopra la cassaforte. È una mappa della tenuta. Se prendete il sentiero che porta a sud, troverete un controviale di un paio di chilometri che sbuca sulla M25. Il cancello ha un codice. Il numero è 4457. Passare di là darà un bel vantaggio, mentre io chiamo la polizia».

«Io dico che di staccarle la testa», fece il più basso, continuando a premerle la canna sul viso così forte da costringerla a indietreggiare sino a quando non si ritrovò spalle al muro.

«Siate furbi. Vi sto offrendo una via di fuga. Il tempo passa. Avete ottenuto quasi centomila sterline, la polizia ancora non è stata avvisata e voi state ancora qui a chiacchierare».

La pressione della canna del fucile sulla guancia aumentò ancor di più… Margaret chiuse gli occhi… ascoltando in silenzio il ticchettio dell’orologio. Poi non sentì più il contatto del metallo sulla pelle. Ci fu un tonfo, subito dopo un concitato rumore di passi sulle scale. Margaret aprì gli occhi. Era da sola. Sia le armi sia i ladri erano spariti.

Corse in soggiorno. Li vide montare nel furgone e mettersi in moto, andando a sbattere contro il muro dell’ufficio mentre facevano manovra. Non riprese a respirare finché non se ne furono andati, oltrepassando il cancello principale.

Margaret andò alla portafinestra. Sui due corpi senza vita si era raccolto un nugolo di mosche. Si tolse i guanti e tornò nello studio, mettendoli nel cassetto della scrivania, insieme alla chiave dell’armadietto. Dopodiché alzò il telefono e chiamò la polizia.

Quando arrivarono, venti minuti dopo, gli agenti trovarono una donna isterica che aveva appena perso suo marito e la sua migliore amica, uccisi durante una rapina. Presero le registrazioni delle telecamere a circuito chiuso, che mostravano i tre aggressori, e diffusero le immagini al notiziario nazionale della sera.

Come disse il giornalista alla fine del servizio in tv, «la moglie era stata fortunata a sopravvivere».  

Traduzione di Clara Serretta

Fonte: La Lettura 01/12/2019


01/12/2019

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