PUZZLE BEFFARDO


Un mercante d'arte indebitalo fino al collo viene avvicinato dal suo creditore, che gli offre una chance per uscire dall'incubo. In quattro immagini 

di Alex Connor


Daniel Thorpe guardò la porta aprirsi e l’uomo che doveva intervistare varcarne la soglia. Il mercante d’arte era esattamente come lui se lo aspettava, di un’urbanità e di uno charme ineccepibili. Persino la sua stretta di mano era perfetta.
I due uomini si sedettero al tavolo, uno di fronte all’altro. 
«Le dispiace se registro quello che ci diciamo?», gli chiese Daniel. «Riesco a seguire meglio la conversazione se non devo stare tutto il tempo a prendere appunti». 
L’uomo annuì, mentre Daniel posizionava il registratore sul tavolo, in mezzo a loro. Si sarebbe azionato solo se qualcuno parlava. Se c’era silenzio si bloccava all’istante, come un ladro colto in flagrante. 
«Nella sua lettera mi diceva che voleva parlarmi». 
«Assolutamente». 
Daniel gli rivolse un sorriso incoraggiante. «Allora mi dica cos’è successo». 
«Be’, è complicato. Come sa, sono un mercante d’arte. Quarantanove anni, corporatura media, più in salute di quanto ci si aspetterebbe considerando il mio stile di vita. La mia scalata ai piani alti della scena artistica londinese è stata rapida. Avevo ottimi contatti». Bevve un sorso d’acqua dal bicchiere che aveva davanti. «Mi è andata bene. Il destino mi ha preso in simpatia e mi ha fatto conoscere le persone giuste… E sono anche stato fortunato a trovare le “belle addormentate”». 
«Le belle addormentate?»
«Quelle opere di un autore importante che però nessuno ha mai individuato. La mia specialità è l’arte italiana del XVI secolo». 
«E ce ne sono molte di queste belle addormentate?»
«Oh, sarebbe sorpreso di scoprire quanti. Finiscono sul mercato per ignoranza, o perché qualcuno li ha ereditati. Di solito sono tele sporche, incorniciate male, oppure danneggiate. A volte i colori si sono tanto scuriti che sembra che le facce siano avvolte da una nube di nicotina». Fece una pausa, allungandosi a prendere un pacchetto di sigarette. Ne estrasse una e cominciò a spezzarla. «I profani odiano quei panorami ammuffiti, quei ritratti tristi, e spesso li mettono in vendita, magari a un’asta, in qualche oscuro Paese. Così io li scovo». 
«E gli altri mercanti no?»
«Qualche volta sono stato battuto sul tempo. Ma di solito arrivo per primo». Gli rivolse un amabile sorriso.  «Adoro l’espressione “belle addormentate”, ha un non so che di fiabesco. Sono un tipo romantico, sa, tutta colpa del fatto che ho avuto una vita facile. Adesso sembra incredibile, eppure lo era. Allora».
Aveva estratto il filtro della sigaretta e stava svolgendo la carta che conteneva il tabacco. 
«Ma non più?»
«No, come può vedere, non più». L’uomo annuì, senza rancore. «Ero invincibile. Fino a Tintoretto. Lui sì che era un maestro, famoso in tutta Europa, uno dei grandi». 
«Conosceva a fondo le sue opere, vero?»
«Non abbastanza». 
«In che senso?»
«Nel senso che», replicò lui bruscamente, «il signor Tintoretto mi ha quasi fatto le scarpe». 
Fuori stava piovendo, l’acqua rigava i vetri delle finestre e, poiché dentro faceva caldo, sulla parte interna cominciava a formarsi un alone di vapore. Daniel esaminò i suoi pochi appunti, poi alzò lo sguardo. «È iniziato tutto per via dei suoi debiti di gioco, giusto?»
«Sì. Sono stato irretito. In un club privato le cose funzionano in maniera abbastanza diversa rispetto a come vanno con gli allibratori di strada». 
«Ha vinto?».
L’uomo annuì. «Non potevo perdere. Né in galleria né al tavolo da gioco. Poi però la fortuna mi ha voltato le spalle…». Fissò Daniel. «Per lei cosa conta di più?»
«Mio figlio». 
«Lo abbandoni». 
«Ma che sta dicendo?»
«È una forma di assuefazione. Io non riuscivo a smettere di scommettere così come lei non riesce a separarsi da suo figlio», replicò lui. «Non c’è logica in tutto ciò. Ma non serve cercarla, perché nelle dipendenze non ce n’è». 
«Quindi ha cominciato a perdere somme importanti?».
Il mercante d’arte sorrise, divertito. «Forza, me lo chieda. Vuole sapere quanto ho perso, vero?»
«Ok, quanto?»
«Tutto. Frequentavo un club privato ad Hampstead, gestito da Iwo Basinski». Fece una pausa. «Vedo che il nome non le è nuovo». 
«Pare che sia un uomo d’affari senza scrupoli. Ma niente di illegale, o almeno niente che sia stato dimostrato tale». 
«Io lo trovo affascinante. Nel corso degli anni gli ho venduto diversi quadri. Basinski ha un sacco di soldi…». 
«Ha detto di aver perso tutto». Daniel lo interruppe. «Ma all’inizio si trattava solo di soldi…».
«Solo di soldi, dice lei! Sì, erano solo soldi. Ma troppi soldi. Quando la fortuna mi ha voltato le spalle, poi non si è più girata». Il mercante d’arte studiò Daniel. «Perché dovrei raccontarle la mia storia?»
«Ha acconsentito a incontrarmi e io voglio solo chiarire come sono andate le cose». 
«Non c’è niente da chiarire. Tutto è variamente interpretabile. Lo sa come si fa a stabilire se i buchi delle tarme in una cornice di legno sono autentici?»
«No». 
«Se sono netti, precisi, sono opera di qualcuno con un trapano. Perché, vede, in realtà nemmeno le tarme seguono percorsi rettilinei». L’uomo fece una pausa, divertito. 
«Vada avanti con la sua storia». 
Lui si sistemò sulla sedia. «Un giorno persi una cifra considerevole. Ma pensavo che ormai la fortuna stava per tornare a sorridermi. Ovviamente non fu così e presto mi ritrovai a sudare freddo per la paura… Per diversi giorni non successe nulla, poi Basinski venne a trovarmi in galleria. Erano affari. Io ero in debito con lui. Mi sono offerto di pagarlo a rate, ma lui aveva un’altra proposta. Qualcosa che mi avrebbe permesso di eliminare il mio debito in un’unica soluzione». 
«E lei che cosa gli ha detto?»
«Ero davvero sollevato! Mia moglie mi aveva lasciato e speravo che, avessi cancellato il debito, sarebbe tornata da me. Anche la galleria era in pericolo. Se Basinski mi avesse costretto a pagarlo immediatamente avrei dovuto vendere tutto. Quando gli chiesi che cosa voleva che facessi, lui mi rispose che dovevo risolvere un indovinello. Poi si infilò una mano nella tasca interna della giacca e ne estrasse una busta. Dentro c’erano quattro fotografie». 
«Di cosa?»
«Ognuna ritraeva un dettaglio di un dipinto di Tintoretto. “Dimmi solo a quale quadro corrisponde ognuna di queste immagini”, mi spiegò in tono piatto». 
«Tutto qui?»
«Be’, non era affatto semplice. Le immagini erano irriconoscibili, magnifici dettagli impossibili da interpretare. Figuriamoci attribuirli a un quadro in particolare. Ed erano in bianco e nero, cosa che rendeva l’impresa ancora più ardua. Gli dissi che era troppo difficile, ma lui mi rispose che se volevo eliminare il mio debito dovevo risolvere l’enigma…». 
Il mercante d’arte piazzò un pezzo di carta sul tavolo, davanti a sé. C’era disegnata una piuma, un primo piano molto ravvicinato. Daniel comprese subito come quel compito che aveva ritenuto semplice fosse in realtà diabolicamente difficile. 
«…Basinski mi concesse una settimana per identificare tutti e quattro i dettagli. Se ci fossi riuscito, il mio debito era estinto». Fece una pausa. «“Prendilo come un gioco. Un gioco a cui può partecipare solo un vero esperto”». 
Daniel si accigliò. «Non voleva indietro i suoi soldi?»
«I soldi erano una questione secondaria. Basinski odia il mondo dell’arte. Un mercante una volta l’aveva raggirato e lui non l’aveva mai digerito. Gli piaceva tenermi lì appeso come un verme all’amo della sua canna». 
«Ma non era stato lei a raggirarlo». 
«No, ma se uno sente il bisogno di prendere a calci un cane, che importa di che cane si tratta?». 
Daniel studiò l’uomo che aveva difronte. «Gli chiese cosa sarebbe successo se non fosse riuscito a pagare il debito?»
«No», replicò freddamente il mercante. «Non ho osato».
Tra di loro, sul tavolo, giaceva la prima immagine, adesso accompagnata dalle altre tre. 
Per Daniel erano assolutamente indecifrabili. «E aveva solo una settimana di tempo?»
«Sì. Sono andato nel panico. Ho spulciato tutti i miei libri, a casa e in galleria, ma senza ottenere alcun risultato. Dopotutto, non sapevo quale dettaglio appartenesse a quale quadro, quindi l’unico modo per risolvere il quesito era esaminare tutti i dipinti di Tintoretto. E lo feci per ognuna delle quattro immagini». 
«Quanto tempo le ci è voluto?»
«Due giorni per trovare il primo quadro. Ho usato una lente di ingrandimento professionale che avevamo in galleria per setacciare la Crocifissione: è l’opera più famosa di Tintoretto ed ero sicuro che Basinski volesse cominciare da lì». 
«Ed era così?»
«Oh sì, ma ben presto le cose si misero peggio del previsto. Mi stava provocando. Sapeva che sarei andato subito a esaminare la Crocifissione, come in effetti avevo fatto. Quindi si era spostato in acque che mi erano meno familiari. Un primo piano della lingua di un cane…». Spinse l’immagine verso Daniel. «Ha idea di quanti cani abbia dipinto Tintoretto? I giorni passavano e io sentivo dei passi fuori di casa, di notte, e il telefono che squillava. Quando andavo a rispondere, all’altro capo non c’era nessuno. Intimidazioni. E, mi creda, mi sentivo davvero intimidito». Il mercante d’arte porse a Daniel la terza immagine. La parte superiore del busto di un uomo in armatura. 
«E che mi dice della seconda immagine? Della lingua del cane?»
«Ero a un punto morto. Non riuscivo a trovarla. Avevo esaminato ogni millimetro delle opere di Tintoretto, ma niente». 
«E quindi che cosa ha fatto?»
«Mi sono dedicato al terzo dettaglio. Una volta che avessi individuato quello sarei tornato al precedente». 
Daniel si stava appassionando.  «E l’ha trovato?»
«Sì, il terzo sì. Era nel Miracolo dello schiavo. Ero al settimo cielo. E poi ho trovato anche il secondo… una cosa incredibile! Quel maledetto cane era nelle Nozze di Cana». 
Con l’indice della mano sinistra il mercante spinse la quarta foto verso Daniel. Era uno scorcio di un paesaggio cupo. 
«Che cos’è? Potrebbe trattarsi di qualsiasi cosa, trovarsi dovunque».
Il mercante annuì. «Esatto. Lo fissai. Lo insultai. Lo guardai in ogni modo, da ogni prospettiva, voltandolo e rivoltandolo. Era parte di un paesaggio. O no? Esaminai a fondo tutti i cataloghi di Tintoretto, ma non ebbi fortuna. E il tempo passava». Bevve un sorso d’acqua. «Avevo visto uno degli uomini di Basinski aggirarsi vicino il cancello di casa mia, e il telefono continuava a squillare, di notte». 
«Temeva per la sua vita?»
«Non avrei dovuto?», replicò il mercante. «Ed ero anche preoccupato per mia moglie. Se se la fossero presa con lei?... Mi restavano solo quattordici ore. Decisi che se avessi fallito avrei ceduto la mia galleria a Basinski, e così il mio debito sarebbe stato più che coperto. Ma sapevo anche che lui non sarebbe stato d’accordo. Non era una questione di soldi…». Gli tremavano le mani mentre giocherellava con un anello con il sigillo. «Poi mi venne l’ispirazione. E se fosse stato un indovinello nell’indovinello?».
Daniel si accigliò. «In che senso?»
«Basinski poteva aver scelto un quadro la cui provenienza era incerta. Era un’opera di Tintoretto oppure no?». Fece un sorriso triste. «Tornai ai miei libri, vecchi cataloghi, articoli sulle attribuzioni ancora non dimostrate. Dio, ero disperato. Ma avevo ragione, e infatti lo trovai. Era un dettaglio dello sfondo del ritratto di sant’Antonio. Un quadro per il quale la paternità di Tintoretto era ancora in fase di discussione». 
Daniel scosse il capo. «Quanto le era rimasto?»
«Un’ora», replicò il mercante. «Solo un’ora. Rimisi le immagini nella busta e sopra vi scrissi il titolo dei quadri. Ero stupito io stesso di esserci riuscito, eppure avevo… era stata proprio un’impresa». 
«Cosa disse Basinski?». 
Seguì una lunga pausa e il sorriso del mercante svanì.
«Mi disse: “Ben fatto”». 
«Tutto qui?»
«Avevo fatto quello che mi aveva chiesto. Avevo risolto l’indovinello. Avevo attribuito ogni dettaglio al suo quadro». Il mercante d’arte si alzò e si mise a passeggiare per la stanza. «Per conto mio avevo rispettato l’accordo». 
Daniel lo fissò, a disagio. «E che altro disse Basinski?»
«“Hai appena completato la prima prova”». 
Aveva smesso di piovere, ma l’acqua continuava a rigare il vetro della finestra. Il mercante d’arte non stava parlando e la lucetta rossa del registratore si era spenta. Daniel Thorpe lo osservava, in silenzio. Aveva voluto occuparsene lui, di quella storia, il giornale lo pagava bene, ma non nutriva alcun interesse per il mondo dell’arte.
Prima dell’intervista aveva visitato la galleria del mercante, aggirandosi tra le opere in mostra sotto lo sguardo sospettoso della commessa e dell’usciere. Pensavano che intendesse rubare qualcosa? Poi si rese conto che portava un paio di jeans e che aveva un pessimo taglio di capelli, il che non gli dava affatto l’aria del possibile acquirente. Così aveva tagliato la corda e preso in antipatia il mercante d’arte che stava per intervistare. 
Ma quell’antipatia non era durata a lungo. Quello che aveva davanti non era un uomo fortunato, bensì un uomo distrutto. «Il rebus era in due parti?».
Il mercante d’arte si risedette e annuì. «Sì, era in due parti. Ma d’altronde lei lo sa, è per questo che è qui». 
«Ho bisogno che sia lei a raccontarmelo. Per favore». 
«Vuole che glielo racconti io, eh? Bene, Iwo Basinski mi aveva in pugno». Inclinò la testa all’indietro, alzando lo sguardo al soffitto. «Il mercante che lo aveva raggirato anni prima – Leon Joyce – era l’attuale proprietario del Sant’Antonio». 
«Il quadro a cui apparteneva il quarto dettaglio?»
«Esatto. Quello che avevo faticato tanto a individuare. E il dipinto apparteneva proprio all’uomo che tempo prima aveva fregato Basinski… il resto lo sa». 
«Ho bisogno che me lo dica. Che altro le chiese di fare Basinski?». 
Il mercante d’arte si alzò di nuovo in piedi. «Ovviamente non era solo una questione di soldi. Sospettavo che volesse vendicarsi. E avevo ragione». 
«Prosegua». 
«Voleva prendere due piccioni con una fava. Avrebbe riavuto indietro i suoi soldi e in più si sarebbe vendicato. E io ero così spaventato e così a pezzi che avrebbe potuto chiedermi qualsiasi cosa. Basinski aveva architettato il suo piano per anni. Il mercante che lo aveva fregato probabilmente ormai nemmeno si ricordava più di averlo fatto. Erano affari. Ma Basinski non dimentica…». 
Daniel lo studiò, mentre lui continuava a camminare. 
«Mi resi conto di essere stato selezionato apposta. Basinski aveva bisogno di qualcuno che facesse parte del mondo dell’arte e io ero perfetto. Come le dicevo, ero diventato un frequentatore abituale del club di Hampstead e lui mi aveva fatto vincere per un po’, in modo da assicurarsi che sarei tornato». 
«Pensa che abbia orchestrato tutto?»
«Ma certo! Contava sulla classica stupidità del giocatore, e io non l’ho deluso. Poi ha fatto la sua mossa. Ero un mercante d’arte, sapevo tutto di quell’ambiente, e anche del tizio che l’aveva umiliato. Con me andava sul sicuro». 
«E lei non se lo aspettava proprio?». 
L’altro fece un sorriso amaro. «Ho l’aria di chi se lo aspettava?». Fece una pausa, poi proseguì. «Leon Joyce e io eravamo amici, così come le nostre mogli. Ci facevamo simpatia e avevamo fatto anche delle vacanze insieme… Leon non aveva alcun motivo di non fidarsi di me». 
«Per questo Basinski l’aveva incastrata?». 
Il mercante d’arte annuì. 
«E lei non aveva mai avuto alcun sospetto?»
«No». Scosse il capo. «Alla fine gli chiesi che altro voleva da me e lui mi disse: “Rubagli il Sant’Antonio e siamo pari». 
La porta della stanza si aprì ed entrò un secondino, che si rivolse a Daniel. «Il tempo a sua disposizione è finito». 
«Mi avevano concesso un’ora».
«Ed è passata», replicò quello, facendo segno al mercante d’arte di alzarsi. Lui obbedì, rivolgendo a Daniel un mesto sorriso. «Ero un bravo mercante d’arte, ma un pessimo ladro. Sono stato beccato durante il furto. Non sono riuscito nemmeno a portarlo via…».
«Ma il Sant’Antonio non è stato più ritrovato». 
«Davvero?», rispose lui. «Non ne so nulla. Io non ce l’ho… Chieda a Basinski. Quel bastardo mi ha rovinato».
Pensieroso, Daniel guardò il mercante d’arte che veniva condotto via, poi udì i suoi passi e quelli del secondino che si allontanavano. Ovviamente non sarebbe mai riuscito a dimostrarlo, ma se quell’uomo avesse davvero rubato il Sant’Antonio? Avrebbe potuto nasconderlo da qualche parte prima di essere catturato, o passarlo a un complice fuori dalla finestra e lasciarsi beccare per dare il tempo all’altro di scappare. Si sarebbe fatto tre anni di prigione in tutta sicurezza e sua moglie sarebbe stata messa sotto protezione in una località segreta, lontano dalla portata di Iwo Basinski. 
Daniel non era affatto uno stupido e sospettava che il mercante avesse organizzato tutto. Aveva fatto finta di essere una pedina, invece aveva fatto il doppio gioco. A quel punto doveva solo aspettare. Una volta fuori di prigione, sarebbe tornato da sua moglie e si sarebbe goduto la fortuna ottenuta dalla vendita del Sant’Antonio. Naturalmente sarebbe stato un affare condotto in gran segreto e l’acquirente avrebbe dovuto tenere la bocca chiusa, proprio come il mercante. 
Quella piovosa mattina un pensieroso Daniel Thorpe lasciò la prigione, chiedendosi chi fosse davvero la vittima, in quella storia. 
Traduzione di Clara Serretta

Fonte: La Lettura 11/11/2018


11/11/2018

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