PPP, un giallo sempre incompiuto


NEL SUO ROMANZO MASSIMO LUGLI RACCONTA LA ROMA DEL 1975 E L'INDAGINE SULLA MORTE DEL POETA CONDOTTA DA UN GIOVANE GIORNALISTA. CHE GLI SOMIGLIA MOLTO 

di Giancarlo De Cataldo

CON QUESTO suo ultimo romanzo, Il giallo Pasolini (Newton Compton), Massimo Lugli ci riporta a quel drammatico autunno del 1975 segnato, appunto, dall'assassinio di Pier Paolo Pasolini. L'alter ego letterario di Lugli, Marco Corvino, giovane praticante di Paese Sera, quotidiano comunista della Capitale, si fa esattamente le stesse domande che, da allora in avanti, avrebbero tormentato tutti coloro - e non sono pochi – che non si appagano della versione ufficiale consacrata negli atti giudiziari: Pasolini ucciso all'Idroscalo di Ostia dal marchettaro Pelosi, detto Pino la Rana, per reazione alle avances violente e non gradite del poeta. Pelosi fu killer solitario? C'era qualcuno con lui? Si trattava di una storia di prostituzione, un affare di corruzione notturna, una trama a un tempo tragica, scandalosa eppure logica, la conseguenza annunciata di un'esistenza essa stessa scandalosa? Nell'Italia della violenza nera e dell'incombente terrorismo rosso si voleva impedire il funzionamento di una lucida intelligenza controcorrente? Si voleva far tacere una voce scomoda perché stava scrivendo Petrolio, il romanzo che avrebbe finalmente fornite le prove al suo famoso «Io so»? 
Tutto questo si chiede Corvino, che intraprende una personale caccia solitaria alla verità alimentata, passo dopo passo, più da dubbi che dà certezze. Il giornale non lo aiuta. Il Pei, nel quale pure PPP aveva militato, sembra disinteressarsi al mistero della sua morte. Pasolini era scomodo anche a sinistra. C'è forse un tacito accordo fra perbenisti che impedisce di scavare a fondo nella vicenda, un sottile convergere di contrapposte linee di pensiero unite da una tremenda riflessione comune: in fondo, se l'è andata a cercare. A Corvino non sta bene. E continua a indagare. E mentre indaga, il mosaico della sua formazione, umana e professionale, si viene arricchendo di preziosi tasselli, e il giovane uomo sperimenta l'amore per una seducente collega più matura, l'ostilità delle maestranze e il cameratismo e la stima ruvida dei vecchi, cinici, irresistibili toponi da redazione, la diffidenza della sbirraglia per un ragazzo in eskimo e borsa di Tolfa. Ne emerge un ritratto vivo, vitalistico, eppure a tratti struggente, degli anni Settanta. Chi è troppo giovane per aver conosciuto la Roma del tempo ne resterà sicuramente impressionato - quanta pazzia, ma anche quanta maggiore libertà si respirava allora - e chi c'era faticherà a contenere la commozione suscitata dall'onda emotiva del ricordo. E non potrà che ringraziare Massimo Lugli per aver scritto questo romanzo.

Fonte: Il Venerdì 08/11/2019


08/11/2019

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