Napoleone contro i bulli


di Luigi Offeddu

Lo sappiamo tutti, la macchina del tempo non esiste. Ma se esistesse, e se l'avesse ora di fronte, in quale epoca vorrebbe ritrovarsi Simon Scarrow? «Nel giorno in cui David Cameron indisse il referendum per la Brexit, l'uscita di noi inglesi dall'Unione Europea. Quel referendum non dovevamo farlo. 0 almeno, avremmo dovuto avere due settimane in più per riflettere...».

Scarrow, già professore di letteratura e autore di 35 romanzi storici come Sotto l'aquila di Roma (il primo, del 2000), con cinque milioni di copie vendute, i suoi compatrioti li conosce bene. Quelli di oggi, i contemporanei della Brexit, e quelli di ieri, che guidati dal duca di Wellington fermarono a Waterloo un piccolo grande imperatore francese. Napoleone Bonaparte e Arthur Wellesley, il «Duca», sono appunto i protagonisti di una quadrilogia già pubblicata in inglese, di cui esce ora il primo volume tradotto in italiano, La battaglia dei due regni (Newton Compton). Racconta l'infanzia e la giovinezza dei due condottieri, i giorni in cui i semi dei loro caratteri furono gettati.

Nacquero nello stesso anno, il 1769, furono entrambi soldati ed entrambi amarono preparare le battaglie studiando le mappe topografiche. Galopparono nella stessa Europa, dilaniata da uno scontro epocale in quella che oggi, dice Scarrow, si può forse riconoscere come «la prima vera guerra mondiale». Ma le similitudini esteriori, apparenti, finiscono qui. Almeno finché non si apre il libro. L'uno, il Bonaparte, vinse 60 battaglie su 70 ma alla fine perse tutto. L'altro, il «Duca, nasone» ne vinse molte di meno, ma non fu mai veramente sconfitto. Era un conservatore e patriota fino al midollo, «non amava il popolo, né ovviamente le rivoluzioni». Il piccolo corso di Ajaccio risponde «io farò il soldato» già da ragazzino, quando il padre Carlo gli chiede dei suoi intenti futuri. Ma «senza la rivoluzione francese - dice ora Scarrow - non sarebbe stato nessuno, da lui non sarebbe venuto niente». Perché? «Perché nella carriera militare, e nella rivoluzione, trovò la sua via di ascesa sociale».

Nel libro lo profetizza già padre Dupuis, vicedirettore del collegio militare di Brienne, che appartiene alla stessa classe del giovane corso: «Questo è uno dei pochi posti in Francia dove le persone con le nostre origini possono avere successo». Quanto agli altri, gli aristocratici, «malgrado indossiate la medesima uniforme, mangiate alla stessa tavola e studiate nella stessa aula, sentite che c'è un abisso tra voi e loro... Parlano in modo diverso, pensano in modo diverso e vivono in modo diverso. Voi state lì, a desiderare rutto ciò che hanno. Eppure sapete che non sarà mai possibile. Perciò, accettiamo che il mondo è ingiusto. Cosa potete farci?». Fecero invece tutto: la rivoluzione e la carriera militare.

Ma la rivoluzione ribaltò anche l'esistenza di Wellesley: «Lui la odiava profondamente - spiega Scarrow - e vestì l'uniforme non per passione giovanile, ma proprio per difendere il suo Paese dal caos che vedeva fiammeggiare fra le ghigliottine di Parigi. Quando Luigi XVI fu decapitato, pensò: se permettiamo rutto questo, presto avremo il caos anche da noi». Era solo patriottismo, il suo? «Direi di no. Era anche la volontà o il bisogno di difendere i propri interessi sociali». Lo stesso Napoleone, lei scrive, fece però qualche riflessione davanti al patibolo del re... «Sì, per lui quell'esecuzione fu la prova che il mondo doveva essere governato non dagli aristocratici, il cui potere aveva portato a quella tragedia, ma da coloro che avevano i meriti e la capacità di farlo, indipendentemente dalle loro origini...». Nel libro è Napoleone stesso a dirlo, quando incontra il coetaneo inglese Wellesley all'accademia di Angers...«Sì. Spiega infatti: "Niente è più irrilevante delle origini di un uomo". Ma per la verità, quell'incontro fra i due l'ho immaginato io, niente di storico sta a testimoniarlo». Possiamo comunque dire che la morte di Luigi XVI fu decisiva per i destini di entrambi? «Sì, certo». Il romanzo sembra disegnare altre cose, in comune fra loro. Come un'adolescenza angariata dal bullismo. Al collegio di Eton, Arthur è perseguitato dalle beffe del protervo Bobus Smith, e ne soffre moltissimo: ma un giorno reagisce, spezzando al bullo il naso e tre dita. All'accademia militare di Brienne, l'odioso Alexandre de Fontaine con altri compagni sputa nella tazza di Napoleone, preso in giro per l'accento corso, poi lo umilia in altri modi, lo pesta: finché Bonaparte gli rende la pariglia. La creazione dello scrittore e la realtà biografica (il romanzo è frutto di due anni di ricerche e nove mesi di scrittura) qui si accostano e confluiscono come due fiumi, difficile imbrigliarli. Ma non importa granché: il parallelo fra le due adolescenze non è certo suggerito per caso e colpisce nel segno. «Sì, è voluto. E prova perché siano tanto importanti l'infanzia e la giovinezza di ogni persona, perché io abbia voluto dedicare solo a questo tema il primo volume della quadrilogia: perché la vita è dura, molto dura, e nell'affrontare i loro persecutori Arthur e Napoleone diventano più forti. Non so perché in genere guardiamo alla giovinezza come a un tempo idilliaco: non è così, è un tempo pieno di sfide difficili...». Restiamo al ragazzo Arthur. Non solo nella creazione del romanziere, ma nella realtà, era un tipo timido e fragile, dedito allo studio del suo violino: che però spaccò e bruciò quando la ragazza dei sui sogni Kitty Pakenham, spinta dai familiari, rifiutò la sua mano (non era un buon partito economico) e quando i roghi francesi sembrarono minacciare la stabilità del suo mondo. È uno dei momenti più drammatici del racconto: «Di lì a poco la follia rivoluzionaria avrebbe valicato i confini della Francia, minacciando di contagiare il resto del mondo. Doveva essere arrestata se si aveva a cuore la sopravvivenza dell'ordine, della civiltà stessa.... In quel sottile guscio di legno vivevano infiniti ricordi che adesso lo opprimevano; poi, d'un tratto,(Arthur, ndr) capì cosa doveva fare, subito. Balzò in piedi, si avvicinò al fuoco e afferrando lo strumento per il collo, lo appoggiò tra i carboni ardenti. Per un istante il violino rimase immobile tra le fiamme tremolanti. Poi, con una fiammata giallognola, lo smalto prese fuoco e sulle sue eleganti curve presero a danzare allegramente fiamme più lunghe».

Wellesley fu un uomo, scrive Scarrow, «gravato dall'intollerabile fardello di una natura onesta». Possiamo dire lo stesso di Napoleone? «No. Fu altro, ma non quello». Ma che cosa resta del Duca oggi, nell'animo e nella memoria degli inglesi? «È tuttora ricordato come un soldato valoroso, un personaggio positivo». E lei concorda? «Non del tutto. Io in lui ammiro l'integrità morale, l'uomo fedele alla parola data. Ma nello stesso tempo fu un antidemocratico. E, proprio come Napoleone, dopo i grandi successi diventò sempre più consapevole di se stesso. Troppo. Per esempio dopo Waterloo, dove peraltro aveva mostrato un'incredibile forza di carattere, si attribuì tutti i meriti, anche se non era stato così e aveva fatto anche errori. Insomma, divenne quasi arrogante». Possiamo scorgere in questa autoconsapevolezza qualche sintomo di un certo carattere britannico, per esempio quello emerso un anno fa con il referendum sulla Brexit? «Mettiamola così. Come dicevo all'inizio non avremmo dovuto indire quel referendum». E lei avrà votato No, è presumibile. «Sì, certo. Io non pensavo né penso che l'Europa sia perfetta, ma neppure da buttare. Diciamo che è un po' squilibrata. Ma bisognava restare per migliorarla, non andarsene. Non bisognava seguire un personaggio arrogante, e imbarazzante per noi, come Nigel Farage». E invece gli inglesi... «Hanno votato in un referendum basato su una maggioranza semplice, con un risultato finale molto risicato. Noi siamo una potenza in declino nel mondo, ma c'è ancora gente che pensa: siamo i migliori, i migliori di tutti. E se ci sono anche ragioni per fare certe richieste, la maggior parte di queste ragioni sono stupide. Eravamo un Paese ragionevolmente unito, al suo interno e all'Europa... Ma in democrazia, chi grida di più viene più ascoltato». E gli inglesi ricorderanno di certo anche Napoleone. Che cosa è rimasto di lui, nella loro memoria e in quella degli europei in genere? «Alcuni lo ricordano come il mostro dell’Europa. Ma è strano, qui è molto difficile ragionare in bianco e nero. Per molti, in Francia e altrove, Napoleone è un eroe, per altri è la versione francese di Hitler. Io lo ammiro come un genio, non come un generale, ma come il legislatore che fece grandi riforme nelle leggi e nell'istruzione. Ma nonostante ciò, fu un tiranno. Restò attorcigliato nella sua dispotica, arrogante introspezione. La campagna di Russia costò mezzo milione di soldati morti, e lui se la cavò dicendo: io sono Napoleone...». Fu un uomo del destino, come hanno sempre detto la poesia e la tradizione popolare? «Da giovane lui sentì di esserlo, senza dubbio. Poi, dovette affrontare gli eventi e anche adattarvisi. Io direi piuttosto che Napoleone fu un grande, istintivo, passionale giocatore d'azzardo. Un avventuriero. Anche quando perdeva, e gli restava una sola cosa da giocare, fosse pure stata la vita di un uomo, la giocava, si giocava tutto. Ed ebbe sempre un'enorme fortuna». Come dice la tradizione? «Proprio così. E non bisogna dimenticare una cosa: se tu sei un giocatore molto fortunato, anche la storia è molto generosa con te». Fino all'alba di Waterloo.

Fonte: La Lettura 09/07/2017


09/07/2017

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