Marcello Simoni "Il segreto dello scrittore? Non deve usare troppa intelligenza"


L'ex bibliotecario scala le classifiche con i thriller storici L'Abate nero vi porta tra i Medici e nelle bettole di Villon"

di Raffaella Silipo

«La scrittura è un'isola misteriosa. Al governo ci sono solo io e mi racconto storie per sfuggire alla noia della vita quotidiana». Leggere Marcello Simoni è una cavalcata a perdifiato nel piacere puro, fanciullesco della lettura: come quando - prima dell'era digitale - a 12 anni si scoprivano Il Conte dì Montecristo o Ivanhoe. Non è un mistero, quindi, il suo successo: anche l'ultimo thriller storico (il dodicesimo), L'eredità dell'abate nero, staziona in cima alle classifiche. Siamo nella Firenze del Quattrocento: il giovane ladro Tigrinus, accusato ingiustamente di omicidio, stringe un patto con il potente Cosimo de' Medici e s'imbarca verso Oriente all'inseguimento di un tesoro e di qualche indizio sul suo oscuro passato. Vendette e inseguimenti, agnizioni e antiche leggende, fanciulle elusive e monaci cupi, il tutto con un ritmo indiavolato ma senza rinunciare all'esattezza storica: perché Simoni, quarantenne romagnolo di Comacchio, in materia è preparato: laurea in Lettere, gavetta da archeologo e bibliotecario. E mescola passato e presente con lo sguardo pop di un appassionato di Dylan Dog e serie tv.

Come si diventa il re del thriller storico italiano? «Ho amato la scrittura fin da bambino: mia mamma era maestra, mio padre impiegato all'anagrafe. Arrivavano a casa pacchi di fogli e scrivere era naturale: ho imparato subito che era un modo per rivivere le suggestioni di quando mi raccontavano le favole. Ero un lettore vorace e compulsivo. Mi tuffavo a capofitto in Dumas e Salgari, Verne e Stephen King. Ma anche nel Medio Evo fantastico di Calvino».

Un libro simbolo? «Il mio amore letterario a quell'epoca è stato Ventimila leghe sotto i mari. Ricordo benissimo quando è arrivato a casa, aspettavo i miti di dei ed eroi greci ed ero diffidente. Appena aperto mi sono trovato immerso nella storia, ha suggestionato profondamente il mio immaginario».

Sognava di diventare scrittore? «Beh certo. Tutti i protagonisti di Stephen King erano scrittori! Ma non ci speravo nemmeno, è una cosa che non ti insegna a fare nessuno, non ci si può laureare scrittore. Così mi sono iscritto a Lettere e all'università ho iniziato ad appassionarmi del passato, romani, etruschi, Medio Evo. Sono stato conquistato dalla filologia romanza. Ma ho smesso di scrivere per puro piacere».

E si è dato all'archeologia. «Sì, il problema pero è che con l'archeologia non ci si mantiene e io avevo bisogno di guadagnare. Così ho fatto un concorso e sono stato assunto in una biblioteca ecclesiastica - non è un caso se nei romanzi infilo sempre dei monaci vittime! - dove ho passato 9 anni. Lì tra i libri ho riscoperto di nuovo la passione della scrittura, come ribellione al posto fisso».

Da dove ha tratto ispirazione per il primo libro? «Dai miei gusti di lettore affamato di romanzi di genere thriller e horror, come Poe e Lovecraft, ma anche di fumetti Marvel e Bonelli».

In effetti la sua scrittura è molto grafica, molto visiva «Sì, perché mentre immagino la storia mi trovo immerso nella scena ed è come se la vedessi. Le spade, i cavalli, i cappucci dei monaci.... D'altronde l'uomo del Medio Evo pensa per immagini».

Il successo l'ha stupita? «Mi ha terrorizzato. Scrivevo in modo istintivo e quando ho vinto il premio Bancarella temevo che il successo mi impedisse di scrivere altri romanzi e per me la continuità, la durata è fondamentale L'ho detto, sono un lettore vorace, amo le saghe e i libri lunghissimi».

Beh, mi sembra che l'impasse l'abbia superato... Da dove viene un'immaginazione tanto vivida? «Ho sempre saputo di essere intelligente, capivo in fretta le cose, le ricordavo subito. Ma il segreto dello scrivere credo sia nel non usare troppo l'intelligenza, nel rallentarla, per così dire, e lasciarsi trascinare. L'intelligenza governa bene la barca, mentre le storie sono un flusso impetuoso, una forza della natura. Bisogna lasciarle libere».

Lo stesso discorso si potrebbe fare per certa letteratura «intelligente» ma un po' arida, no? «Esatto. Se si è troppo preoccupati di sembrare critici, intelligenti, informati, si rischia di annoiare il lettore. Per divertirsi scrivendo - e leggendo - è fondamentale il ritmo. Pensavo all'Isola del tesoro di Stevenson, lo sto rileggendo proprio in questi giorni. Non ha nessuno snobismo, i personaggi non prendono posizioni politiche, le descrizioni dell'epoca non sono perfette, ma non riesci a chiuderlo. Per la precisione ci sono i saggi storici».

E lei pure ne ha scritti... «Il saggista ha il grande privilegio di poter essere noioso, ma è l'esatto contrario della spinta narrativa. Prenda Umberto Eco. Con Il nome della rosa è riuscito a far andare la spinta narrativa di pari passo con l'erudizione Invece nel Pendolo di Foucault non ce l'ha fatta. È troppo erudito, troppo intelligente. Io invece scrivo - e leggo - per divertimento».

I personaggi come nascono? «Li vedo come un mazzo di tarocchi, ogni arcano ha uno straordinario potere evocativo: sono archetipi subito riconoscibili, il cavaliere, la maga, l'assassino. Poi ci gioco e aggiungo variazioni sul tema: mi diverto a infrangere le regole».

Per esempio nell'Abate nero? «Il personaggio principale, Tigrinus, è un ladro sui generis. Mi sono ispirato a Francois Villon, il poeta della Ballata degli impiccati, che vive ai margini della società, frequenta le bettole ma sa maneggiare con grazia assoluta le parole. Un ladro gentiluomo con una leggerezza quasi calviniana, che potrebbe essere un mendicante come un nobile. E poi viaggia per mare... il mare è sempre presente nel mio immaginario».

I suoi libri sembrano fatti apposta per diventa re serie tv, lei ne segue qualcuna? «Sono un divoratore anche di quelle. Ho adorato Tabù con Tom Hardy, mentre non mi è piaciuta affatto i Medici. È stata un'occasione persa, Cosimo era un uomo di genialità assoluta, invece gli americani hanno costruito un 400 di cartapesta con errori grossolani: a un certo punto cenavano in una sala con affreschi settecenteschi! Piuttosto allora meglio il fantasy: adoro Game of Thrones, un capolavoro».

Ama anche i libri fantasy? «Ho amato moltissimo Il signore degli anelli. Ma certi fantasy mi fanno anche un po' venire il nervoso, perché nei libri storici si impazzisce per la verosimiglianza, per i particolari, e poi vedi i colleghi fantasy che nel momento difficile piazzano un drago et voilà è fatta».

Medio Evo, Rinascimento, epoca barocca... Lei spazia in tutti i secoli, ma quale preferisce? «Non sono i periodi, ma le situazioni che mi emozionano, perché allora erano molto più facilmente estreme e al limite. E poi i particolari visivi: le monete antiche, le galee, le carrozze., tutto quello che si allontana dalla routine grigia del presente».

Non è un po' una fuga? «Certo che lo è. Proprio come la fuga mundi dei monaci. L'ho detto, scrivo per fuggire alla noia quotidiana. Amo perdermi dentro le storie, amo il senso di meraviglia di Ulisse che scende negli inferi. Lo dice bene Grange, i romanzi di genere sono favole per adulti: un'occasione di confrontarsi con l'assoluto che l'uomo moderno ha ben poco».

Fonte: TTL – La Stampa 22/07/2017


22/07/2017

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