MANIERI E CONVENTI (PURCHÉ TETRI E SPETTRALI) FANNO VENIRE VOGLIA DI UN BEL GIALLO STORICO


MARCELLO SIMONI

MANIERI E CONVENTI (PURCHÉ TETRI E SPETTRALI) FANNO VENIRE VOGLIA DI UN BEL GIALLO STORICO

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02-12-2023

Manieri e conventi (purché tetri e spettrali) fanno venire voglia di un bel giallo storico
Marcello Simoni racconta i segreti delle architetture medievali ispiratrici di celebri romanzi Dal "castellaccio dell'Innominato" all'abbazia di Umberto Eco, il fascino sinistro delle "scatole chiuse"


di Marcello Simoni

 

Ogni volta che sento parlare di gialli "a scatola chiusa", mi viene subito in mente un romanzo di Robert Bloch, Gotico americano, nel quale il padre di Psycho mette in scena una rivisitazione della favola di Barbablù. La trama ruota intorno alla figura di un sedicente farmacista uso ad attirare e ad assassinare delle giovani donne fra le mura della sua dimora, un castello dotato di passaggi segreti, trabocchetti, cripte e laboratori privati.

"Il castello era immerso nell'ombra", inizia per l'appunto il romanzo. E di certo le sue atmosfere ne avrebbero sofferto se, al posto di un edificio a tre piani con una facciata a torrette, uscita all'apparenza da una favola per bambini, fosse stato ambientato in un modesto casale o in un asettico grattacielo di Chicago. Del resto, Alessandro Manzoni docet. "Il castello dell'Innominato", si legge nei Promessi sposi, "era a cavaliere di una valle angusta e uggiosa, sulla cima d'un poggio che sporge in fuori da un'aspra giogaia di monti. Dall'alto del castellaccio, come l'aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all'intorno tutto lo spazio dove piede d'uomo potesse posarsi".

Non dissimile, io credo, doveva essere la rocca di Ghino di Tacco, fiero brigante gentiluomo della stirpe senese dei Cacciaconti che, come racconta Boccaccio nella decima giornata del Decameron, rapì l'abate di Cluny, relegandolo in "una cameretta assai oscura e disagiata" del suo aspro rifugio. Si pensi poi al maniero del Castello di Otranto, che sorge su un intrico di corridoi e di sotterranei. O alle pagine di Notre-Dame de Paris in cui Victor Hugo chiama a raccolta un'orgia di folli travestiti da demoni, "tutte le fantasmagorie religiose, dal Fauno a Belzebù; tutti i profili animali, dalle fauci al becco, dal grugno al muso", davanti a una cattedrale piena di ombre, di sordidi intrighi e di un Quasimodo così deforme da ricordare i gargoyle appollaiati sui cornicioni di Notre-Dame.

Non si allontanano di molto da questi lugubri scenari le gallerie frequentate dalla Monaca di Monza per abortire o per incontrare il suo amante, anfratti analoghi a quelli in cui erano usi dileguarsi Fantômas, Rocambole e l'Arsène Lupin di Leblanc, come pure ai castelli, alle abbazie e ai luoghi infestati da spettri descritti nel Monaco di Matthew G. Lewis. Per non parlare della Certosa di Parma.

Quando Umberto Eco scrisse Il nome della rosa doveva aver ben presente questi precedenti letterari, senza tuttavia rinunciare a un altro prestigioso riferimento, Il mastino dei Baskerville, nel quale Sherlock Holmes abbandona il suo comodo divano vittoriano di Baker Street per avventurarsi nella brughiera di Dartmoor - dove naturalmente c'è un castello! - alla caccia di un presunto cane demoniaco.

Nasce così, un po' per volta, quello che sarei tentato di definire un sottogenere del giallo e del noir, ossia il mystery storico caratterizzato da situazioni tetre e scenari sepolcrali, monasteri, castelli e segrete ammantati di ombre amletiche che ritroviamo, giusto per citare un altro autorevole esempio, nell'Enigma del gallo nero di C.J. Sansom, nel quale si narrano le peripezie dell'avvocato Shardlake chiamato a indagare in un'abbazia benedettina dell'Inghilterra del Cinquecento. Atmosfere, queste, che non sfuggono certo a Valerio Evangelisti, a Giulio Leoni e a Sebastiano Vassalli, ma neppure al regista Mario Bava che, girando La maschera del demonio (1960), ci porta a caccia di streghe nelle cripte di un maniero moldavo del XVII secolo.

Tutto questo intrecciarsi di torri, di ambulacri e di cunicoli dà quasi l'impressione di trovarsi in uno dei labirinti onirici di Escher, che sembrerebbero tra l'altro riferirsi proprio ai complessi interni architettonici dell'Italia medievale. Ma se vogliamo avventurarci più a fondo nel pozzo dei secoli, ci rendiamo conto di quanto le ambientazioni di questi romanzi debbano alle apocalissi gotiche affrescate sulle pareti dei monasteri, agli inferni popolati dai "grilli" miniati negli angoli dei codici manoscritti e a quelli suddivisi in terzine della Divina Commedia. 

L'immaginario iconografico dei cosiddetti Secoli Bui, la pittura visionaria di Hieronymus Bosch e il lascito superstizioso, venato di un'arte fortemente drammatica del Seicento hanno, in pratica, soffiato sulle braci delle narrative più adatte a raccoglierne il lascito, contaminando la fantasia di decine e decine di scrittori. Tra cui lo scrivente.

Dal carcere del Grand Châtelet che accolse il poeta maledetto François Villon alla cella sita in cima alla torre fiorentina in cui fu rinchiuso Cosimo de' Medici, dalle catacombe di Roma alla rocca di San Leo in cui fu segregato il conte di Cagliostro, la Storia è zeppa di luoghi sinistri che potrebbero - e non di rado l'hanno fatto - offrire uno spunto per una trama dalle tinte nere. O addirittura dal ritmo avventuroso, come Purezza di sangue di Arturo Pérez-Reverte, in cui si racconta del giovane Iñigo catturato e recluso nelle celle del Sant'Uffizio della Madrid di Olivares.

Tuttavia, ho iniziato questa dissertazione parlando di un castello e, a costo di uscire dal discorso di genere, intenderei concludere parlando di un altro castello. Il castello dei destini incrociati di Italo Calvino. Il maniero medievale, in questo caso, diventa qualcosa di più di un mero artifizio o di una cornice narrativa. Diventa un gioco simbolico che ci aiuta a comprendere il concetto della "scatola chiusa", ossia un microcosmo nel quale si riflette, in potenza e secondo un sistema di allegorie degno di Alano di Lilla, ciò che avviene nel mondo intero. Proprio come nel monastero senza nome del Nome della rosa, nel castello-locanda descritto da Calvino vige il sottinteso che, se al suo interno è possibile trovare equilibrio, lo si potrà fare anche, universalmente parlando, nel mondo tutto. Un'allegoria affascinate ma pericolosa, che rischia di condurci allo smarrimento o all'infinita attesa. Proprio come accade in un'altra scatola chiusa, la fortezza del Deserto dei tartari di Dino Buzzati. Un non-luogo pieno di tenebra e di incertezze come il Pequod, la baleniera di Moby Dick. O come The Terror, il veliero della marina britannica scomparso tra i ghiacci mentre cercava il leggendario Passaggio a Nord-Ovest. 

 


02/12/2023

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