Rigopiano, Giampaolo Matrone: «La prima cosa che ti abbandona è la luce»
Alessia Arcolaci su Vanity Fair
Giampaolo Matrone è l'ultimo sopravvissuto estratto dalla slavina che ha travolto l'hotel Rigopiano il 18 gennaio del 2017. È rimasto intrappolato in quell'inferno di neve e macerie per 62 ore senza sapere cosa fosse accaduto, sperando di trovare fuori ad aspettarlo, sana e salva, sua moglie Valentina. Era sotto nove metri cubi di macerie, neve, alberi, piastrelle. Al momento dell'impatto, all’interno dell’hotel si trovano quaranta persone, tra ospiti e membri dello staff, che vengono sommerse e intrappolate da un muro di neve, detriti e macerie. Tra i corpi delle 29 vittime ci sarà anche quello di sua moglie, Valentina.
La struttura, costruita in una posizione ad alto rischio, era già finita sotto inchiesta perché ritenuta abusiva, ma le indagini successive al disastro si sono concluse con poche condanne e tanti interrogativi ancora senza risposta. Con il suo primo romanzo, L'ultimo sopravvissuto di Rigopiano, edito da Newton Compton, in libreria dal 20 settembre, di cui pubblichiamo un estratto in anteprima, Giampaolo Matrone continua a chiedere giustizia e verità. Per chi è rimasto e per chi non c’è più.
Per la strage di Rigopiano il processo si è concluso con otto condanne e 22 assoluzioni: i giudici hanno confermato le condanne inflitte in primo grado per il sindaco di Farindola Ilario Lacchetta, per i dirigenti della Provincia Paolo D'Incecco e Mauro Di Blasio, per il tecnico Giuseppe Gatto e per l'ex gestore dell'hotel Bruno Di Tommaso. Sono stati condannati inoltre: l'ex prefetto Provolo (che era stato assolto in primo grado), per falso e omissioni di atti d'ufficio, Leonardo Bianco, ex capo di gabinetto della Prefettura, e Enrico Colangeli, tecnico comunale di Farindola.
La prima cosa che ti abbandona è la luce. È scomparso tutto in un istante: il viso di tua moglie, le voci degli uomini che brontolavano accanto a te, i candidi riflessi della neve sui vetri dell’albergo. All’improvviso è stato solo il buio. Hai sentito le gambe precipitare. L’addome andargli dietro, e poi le spalle. Non c’è stato atterraggio, per quel che ricordi. Ma in qualche modo devi aver toccato terra. Attendi che gli occhi si abituino all’oscurità e mostrino qualcosa, ma non accade: questo non è un risveglio, non gli assomiglia in nulla. E proprio adesso, in questo abisso nero, ecco che torna il corpo. La mano destra grida, martoriata. Il busto è intrappolato, l’anca a pezzi. Provi a muoverti, ma non c’è nessuna parte del tuo scheletro che risponda ai comandi. Con le dita della mano libera ti tocchi il viso per controllare se sei vivo o no. Valentina l’ha sentito in anticipo. Ricordi con chiarezza l’effetto del rumore improvviso sui suoi occhi spauriti. E poi, soltanto poi, il rombo che raggiunge le tue orecchie, le trapassa. È stato simile al verso elettrico della metro quando il convoglio avvicina la fermata di Termini o Cinecittà. Due millesimi di secondo prima te ne stavi in piedi di fianco a un pilastro portante, un pilastro il cui compito era sopportare il carico dei tre solai e del tetto spiovente, delle cubature di cemento e di materiale edile, del trionfo di arredi montanari e delle vetrate con affaccio sulla valle. Poi, in un baleno, eccoti stritolato in questa tenebra senza contorni.
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19/09/2024