L'INTERVISTA AD ANDREA FREDIANI


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Loredana Lipperini sul Venerdì

Questa volta Andrea Frediani, storico autore di  romanzi di impressionante successo, ha scelto di raccontare il flagello della peste antonina, che scoppiò nel 165 d.C. sotto Lucio Vero e Marco Aurelio. Avviene ne I tre cavalieri di Roma ( Newton Compton , pp. 320, euro 9,90), storia di una fuga avventurosa con briganti, pirati e cospiratori che coinvolge tre cavalieri, Tito, Bendix e Magnus, e tre sorelle armene, Taline, Lucine e Yeva. È il primo capitolo di una trilogia che si chiama Invasion Saga. «Un titolo da videogioco» ride Frediani «perché volevo che ne avesse il ritmo, e il ritmo, per un batterista come me, è indispensabile. È una saga avventurosa con protagonisti tre uomini e tre donne. Le relazioni fra i personaggi somigliano a quelle di La casa di carta. Sa, siamo in un momento in cui la letteratura, per non annoiare, deve prendere spunto dalla televisione e dal cinema: se scrivessimo come vent'anni fa, non coinvolgeremmo i lettori che si dedicano a un libro prima di andare a dormire. E io non posso aiutarli ad addormentarsi».
Andrea Frediani si autodefinisce in primis un divulgatore: «Mi sono laureato in storia facendo 18 esami su 20 proprio di storia, ma non insegno, a parte lezioni e corsi isolati. Ma proprio la mia estrazione accademica mi impone di rispettare sempre i paletti, intesi come le fonti storiche che non si possono contraddire o smentire per semplice comodità di trama. Cosa che invece alcuni autori anglosassoni fanno». È comunque un caso interessantissimo nel panorama editoriale: «Ho scritto saggi per dieci anni e continuo a farlo. Inizialmente pensavo che avrei fatto il romanziere da vecchio. Invece, nel 2007, il mio editore mi fa: "Fra non molto uscirà un film sulle Termopili, 300, scrivimi un libro”. 'Ho già scritto un saggio su questo", gli ho risposto. E lui: "Voglio un romanzo". Ero sconcertato: "Dammi due giorni", ho detto. Mi sono consultato con un amico, editore pure lui, e mi ha tranquillizzato: hai già una scrittura agile, devi solo inserire i dialoghi. L'ho fatto. Mi sono convinto. Ho scritto 300guerrieri in quattro mesi, ha venduto 100 mila copie e a quel punto la strada era in discesa».
Scrive tantissimo, Andrea Frediani («cinque pagine al giorno, e in tre mesi ho il libro») e tantissimo vende. Tutti romanzi di ambientazione storica: l'antica Grecia, ultimamente Auschwitz, ma soprattutto l'impero romano. «Un legionario in copertina vende 5.000 copie in automatico, c'è un grandissimo bacino di persone che la domenica si vestono da antichi romani e vanno a rievocare battaglie. Mi piacerebbe scriverne uno sulla caduta dell'Impero romano. È ricco di personaggi tragici, come i generali barbari, Stilicone, Ezio, Rìcimero, che di fatto hanno nelle mani l'impero stesso: ma l'editore dice che ai lettori interessa l'apogeo, non il declino».

Si è chiesto perché? E cosa pensa dell'iconografìa imperiale riscoperta dalle destre e la passione per la storia romana brandita dai nazionalismi?


«Secondo un abusato quanto falso assioma, chiunque si vesta da antico romano o sia appassionato di Roma antica è un fascista. Sarebbe auspicabile che il retaggio del passato fosse considerato per ciò che è: un altro periodo storico, rispetto al nostro, che dovrebbe istruirci e ammonirci, senza essere strumentalizzato. Georges Duby ha scritto un saggio, La domenica di Bouvines, che narra della celebre battaglia del 1214: ma non parla dello svolgimento della battaglia, bensì del modo in cui è stata raccontata, percepita e strumentalizzata nel corso delle epoche quella che fu, di fatto, la prima guerra europea. Ora, è un fatto che il regime fascista si appropriò del retaggio imperiale per creare una fantomatica linea di continuità con l'impero da operetta di Mussolini, ma questo non deve indurre la sinistra e consegnare l'eredità antico romana alla destra: l'accostamento fu strumentale e forzato, ma da storico non vedo alcuna continuità né similitudine tra le due strutture politiche, né geografica, né amministrativa, né culturale. Se la sinistra continuerà a guardare con sospetto all'eredità romana, solo perché la destra se n'è arbitrariamente appropriata tempo fa, lascerà che sia sempre la destra a sbandierarla, e solo di rado con fini non politici, senza contribuire in alcun modo a una disamina obiettiva ed equilibrata del tema che, invece, dovrebbe interessare proprio tutti gli italiani e non solo. Gli inglesi, che pure sono stati dominati e sfruttati dai romani, ci studiano da molto prima di noi e ammirano il nostro retaggio; quando professori di Oxford come Sidebottom scrivono romanzi sull'antica Roma, i loro eroi sono romani, non celti o anglossassoni: perché non possiamo farlo noi?».

E perché Roma antica piace così tanto?

«Io sono laureato in Storia medioevale e la storia mi piace tutta. Ma se il 60 per cento della mia produzione è imperniato sulla storia romana, è perché l’editore me la chiede basandosi sulla richiesta degli utenti. Prima del Ventennio, i romanzi storici che avevano per tema l’antica Roma non venivano etichettati politicamente: Ben-Hur, Gli ultimi giorni di Pompei, Quo vadis, erano romanzi epici, prodotti di intrattenimento e di erudizione: magari un messaggio politico lo ha lanciato Spartacus di Howard Fast, ma è degli anni Sessanta. E poi non si contano gli artisti e gli intellettuali ottocenteschi che hanno celebrato Roma antica e che tutti noi ammiriamo solo per la bellezza, l’intensità e la ricchezza delle loro opere, senza porci interrogativi politici…Ma ovviamente, ancora da storico, giudico fisiologica questa situazione: la radicalizzazione tra fascismo e antifascismo in Italia è ancora troppo marcata per gli esponenti di entrambi i fronti: sappiamo resistere alla tentazione di far uso di tutti gli strumenti possibili nella loro contesa politica.»

Parliamo allora in generale: i lettori di romanzi storici sono preziosi, e in continuo aumento (si pensi all’enorme successo di Valerio Massimo Manfredi, di Matteo Strukul o di Marcello Simoni, per quanto riguarda l’Italia). Buffo, per un Paese che non ha un gran rapporto con la storia.


«Vero, non siamo come la Gran Bretagna che ha una cultura storica fortissima. Però gli italiani hanno bisogno di eroi: non li trovano nella realtà quotidiana eli vanno a cercare nei contesti dove abbondano, positivi o negativi che siano. Quanto all'epoca romana, penso che un film come Il gladiatore sia stato indubbiamente uno spartiacque, e abbia fatto venir voglia di avvicinarsi alla storia. Va anche detto che d'abitudine gli scrittori di romanzi storici tengono troppo a far vedere che si sono documentati a fondo, e dunque via con le descrizioni di come mangiavano e come vestivano i romani. Ma per questi dettagli basta un saggio. Dunque, per molto tempo sono rimasti autori di nicchia, che si limitavano a riprodurre quello che studiavano. Invece, bisogna relazionarsi con la storia senza stuprarla».

Come?

«Ho i miei trucchetti. Sovrapporre gli avvenimenti senza alterare la sostanza: la mia estrazione non mi permette di inventare come fanno molti inglesi. E dunque se in un certo periodo Cicerone è a Formi a e non a Roma, non posso cambiare la realtà. Ma posso intervenire sulla cronologia. Jacques Le Goff parlava di immaginazione scientifica: puoi riempire i vuoti, per esempio. È qui che si può intervenire: metto i miei paletti, ma fra un paletto e l'altro c'è moltissimo territorio da esplorare».

Lei ha scelto, per l'ultimo romanzo, la pestilenza che scoppia durante la conquista di Seleucia. È anche un riferimento a quel che stiamo attraversando oggi?

«Non per cavalcare l'onda: uno scrittore sente il bisogno di dire la sua su un argomento che lo coinvolge emotivamente. Peraltro la peste antonina è una delle meno conosciute, sebbene sterminò un quarto della popolazione, anche per la mancanza di conoscenze mediche. Pensi che i medici tenuti in altissima considerazione dai sovrani chiudevano gli occhi ai morti non per pietà ma perché ritenevano che il contagio avvenisse con lo sguardo. E comunque questo è soprattutto un romanzo d'avventura. Avevo appena finito un libro impegnativo come II bibliotecario di Auschwitz e sto per scriverne un altro ancora più impegnativo sugli Orsini: volevo proporre altro. Come dice John Grisham, i lettori vorrebbero che un autore scrivesse sempre lo stesso libro. Ma non è possibile, mi annoierei».


06/11/2020

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