«L’indagine sulla morte di Pasolini fu condotta malissimo: perché l’inchiesta non fu riaperta?»


Massimo Lugli, autore del nuovo libro sul caso dello scrittore e regista brutalmente assassinato a Ostia nel 1975, lancia una proposta per fare giustizia

«Grazie alle moderne tecnologie potrebbero emergere altre verità anche da questo cold case», sostiene il giornalista

Di Luigi Miliucci

Cresciuto professionalmente a pane e cronaca nera, Massimo Lugli è uno dei più capaci ed esperti giornalisti del settore. Guidato da un fiuto infallibile, ha condotto memorabili inchieste e dalle colonne del quotidiano La Repubblica ha regalato ai suoi lettori il racconto attento, curato e minuzioso dei più misteriosi delitti della nostra storia recente. Autore dì numerosi noir, stavolta ha scelto il caso di Pier Paolo Pasolini, lo scrittore e regista assassinato il 2 novembre 1975 a Ostia Lido (Roma), per la sua ultima fatica editoriale: Il giallo Pasolini - Il romanzo di un delitto italiano-, edito da Newton Compton.

Massimo, perché un libro su Pasolini?

«Attraverso questo caso cerco di raccontare gli anni Settanta e il giornalismo di quell'epoca: quello in cui i cronisti, come me, giravano sempre con i gettoni in tasca, perché non esistevano i cellulari, e battevano forsennatamente i loro pezzi con la vecchia macchina da scrivere. Volevo un giallo emblematico di quegli anni e che non fosse ancora oggi risolto. Si tratta di un romanzo autobiografico perché il protagonista della storia, il giovane giornalista Marco Corvino, in realtà, sono io. Quello che gli succede è ciò che è capitato anche a me. La differenza è che io non ho fatto all'epoca un'indagine sulla morte di Pasolini, ho ricostruito la vicenda per questo romanzo con il fondamentale aiuto dell'avvocato Nino Marazzita».

L'omicidio dello scrittore, ancora oggi a distanza di quarantaquattro anni, presenta numerose ombre e tanti punti oscuri.

«L'indagine sulla sua morte fu condotta malissimo. C'è da chiedersi se tanta sbadataggine fosse voluta o meno».

Quali sono stati, secondo te, gli errori più macroscopici che sono stati commessi?

«Innanzitutto prendere per buona la versione di Pino Pelosi e farne la verità processuale. La prima sentenza, in verità, stabili che non era solo e fu condannato per concorso con ignoti, mentre le due successive cancellarono questa formula. Questo perché la parte civile abbandonò il dibattimento dopo il primo grado di giudizio. Pino, detto "la Rana", era un diciassettenne piccolo e magro e sembra difficile che possa aver avuto la meglio da solo contro un uomo come Pasolini, sportivo e in perfetta forma fisica. L'autopsia, peraltro, stabili che la vittima aveva subito un pestaggio devastante. Pelosi, però, non aveva una sola goccia di sangue addosso, non una ferita né un graffio».

Un altro aspetto controverso è relativo all'anello di Pelosi.

«Quando fu fermato per il furto della macchina, ancora non si sapeva del suo coinvolgimento nell'omicidio, cominciò a blaterare a proposito della perdita di un anello. Casualmente questo anello, che pare essergli stato dato da Johnny "lo zingaro", viene ritrovato sul luogo del delitto. Peccato che la fidanzata dichiarerà che giorni prima Pelosi aveva tentato di togliersi dal dito l'anello, ma non ci era riuscito, tanto gli calzava stretto. Difficile credere allora che possa essergli scivolato durante la colluttazione: più plausibile ritenere che sia stato messo appositamente. Tutti elementi che fanno pensare che ci fossero altre persone sulla scena del delitto e non certo il solo Pino Pelosi».

A quali conclusioni sei giunto esaminando le tante incongruenze che presenta la versione ufficiale del delitto?

«Nel libro non avanzo ipotesi o piste specifiche, come hanno fatto tanti prima di me. Faccio mie le parole dell’avvocato Marazzita, che giustamente sottolinea come sia difficile individuare i mandanti se ancora non sono stati individuati gli esecutori di quell’efferato delitto. Pelosi ormai è morto, quand’era vivo ha cambiato una versione dietro l’0altra, confezionava bugie a seconda di quanto gli veniva offerto per rilasciare un’intervista. Quello che mi domando però, è perché quell’inchiesta chiusa con incredibile fretta non sia stata mai riaperta.»

Nessuno ha mai tentato una riapertura di questo cold case?

«Veltroni e altri intellettuali scrissero qualche anno fa una lettera sul Corriere della Sera all’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano per sollecitare una riapertura del caso, ma il procuratore generale a cui si rivolse poi il ministro lo negò.»

Cosa si potrebbe fare?

«Se il caso venisse riaperto, nuove verità potrebbero venir fuori grazie all’utilizzo di metodologie e strumenti che all’epoca non esistevano e quindi non furono impiegati. Vero è che in quegli anni le scene del delitto venivano inquinate all’arrivo di tante persone, giornalisti compresi. Ma come è successo in altri casi risalenti a tanti anni fa, un tentativo si potrebbe, anzi si dovrebbe, fare.»

Fonte: Vero 28/11/2019


28/11/2019

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