LA SIGNORA DELL'ARCA - DI MARCELLO SIMONI


La sorte di uno dei più leggendari oggetti dell'antichità si intreccia con la storia della Regina di Saba. Deserti e amori, angeli e demoni, sfingi e matriarcato, Egizi ed Ebrei. Un autore avvezzo ai segreti si addentra in un groviglio di misteri

MARCELLO SIMONI SU LA LETTURA

 

Pare quasi di vederla. In un tremolare di colori in dissolvenza, tra il blu del cielo e l’ocra della sabbia, un’interminabile teoria di carri dalle tende mosse dal vento. Il mugghio delle bestie da soma, i canti dei servi, l’affondare delle ruote nelle dune, persino la risata di qualche bambino... Il tutto intrecciato in un unico suono, una marea che echeggia nell’arsura del deserto da più di tremila anni.

E in testa alla carovana lei, la Regina di Saba.

Si narra fosse di una bellezza ultraterrena. Non a caso lo scrittore persiano al-Thaʽlabī (X-XI secolo) la definisce frutto dell’unione tra un uomo e una ginniyya, cioè la figlia del re dei ginn. Origine, questa, che secondo la leggenda sarebbe stata tradita da gambe villose e dotate di zoccolo, accomunando la Regina di Saba a Lilith, la prima moglie di Adamo, e alla diavolessa della lussuria Oneskelis, “zampe d’asino”, che Belzebù in persona, secondo un testo apocrifo, avrebbe presentato a re Salomone prima dell’erezione del Tempio di Gerusalemme.

Si scorge una reminiscenza delle sirene in questa commistione di racconti arabo-ebraici. Un richiamo alle onoskeleai che Luciano di Samosata, nelle Storie vere, definisce use a divorare i viandanti dopo averli adescati lungo i litorali della Grecia.

Pare tuttavia che Bilqīs – questo il nome coranico della Regina del Sud – avesse trovato il modo di nascondere la sua deformità bestiale ricorrendo non solo ad abiti lunghi fino ai piedi, ma anche alla nūrah, la pasta depilatoria, nove secoli prima di Cleopatra. Sempre che, è ben inteso, ne abbia mai avuto realmente bisogno.

Eccola dunque in testa alla sua sconfinata carovana, la Regina Nera. Eccola, dopo aver ricevuto un messaggio enigmatico da un’upupa, attraversare il deserto del regno di Saba per raggiungere le mura di Gerusalemme. È la fama di Salomone a incuriosirla. La sua saggezza ad affascinarla, al punto da farla allontanare dal trono per saggiarne la grandezza. Ma Bilqīs, adoratrice del Sole, ultima incarnazione delle arcaiche divinità matriarcali, non risale le remote vie del franchincenso solo per conoscere il re di Giuda. Va per sedurlo. Forse per ingannarlo.

Tra l’antichità e l’età moderna, l’incontro tra questi due personaggi viene rappresentato migliaia di volte, in amuleti, statuette, miniature e celebri opere d’arte tra le quali una scultura di Benedetto Antelami (presso il Battistero di Parma), un affresco di Piero della Francesca (chiesa di San Francesco di Arezzo) e un riquadro della Porta del Paradiso di Lorenzo Ghiberti (Battistero di Firenze). Se tuttavia, sorvolando sulle pagine della Bibbia e del Corano, volessimo contemplarlo attraverso l’effetto grana di una vecchia pellicola, potremmo rivolgersi al film girato nel 1959 da King Vidor, nel quale Salomone ha il volto di Yul Brynner e la regina sabea quello di una giovane Gina Lollobrigida. Dai lineamenti d’ebano di Yetide Badaki è invece la conturbante Bilqīs della serie American Gods tratta dall’omonimo fantasy di Neil Gaiman.

Rappresentazioni contemporanee di una storia consumatasi tremila anni fa. Inquadrature, sequenze, cambi di scena che si sforzano d’infondere nuova linfa al mito della più misteriosa tra le donne. Senza mai accennare, d’altra parte, al segreto più importante della Regina.

Il segreto dell’Arca dell’Alleanza.

Se vogliamo conoscere la verità (sempre che verità e leggenda possano andare a braccetto) dobbiamo affidarci alle pagine di un libro sfuggito dalla polvere dei secoli: il Kebra Nagast, “La gloria dei re”. Composto tra il IV e il VI secolo d.C., ma rimaneggiato nel XIV, è scritto in geʽez, l’antica lingua etiopica da cui derivano l’amarico e il tigrino. In questo libro, tuttora facente parte del corpus dei testi più sacri della chiesa ortodossa di Etiopia, si racconta di una diversa Regina di Saba. A partire dal nome che le viene attribuito: Makeda.

Giunta a Gerusalemme nel momento in cui Salomone innalzava il Tempio grazie all’aiuto dei demoni e dei ginn asserviti al suo potere, ella si concesse agli abbracci del re ebreo per una sola notte e diede alla luce un figlio che, diventato adulto, rubò l’Arca dell’Alleanza.

In altre parole, non sarebbe l’autentica Arca quella che già ai tempi di Costantino si custodiva a Roma, in Laterano, come pure quella donata ancor prima dall’imperatore Tito a Berenice di Cilicia. E nemmeno possiamo sperare che questo inestimabile cimelio attenda d’essere scoperto, come vuole l’intramontabile cult di Indiana Jones, in una camera segreta delle rovine di Tani, in Egitto. Secondo il Kebra Nagast, infatti, la vera Arca sarebbe stata nascosta dal figlio della Regina nella città di Axum, nel cuore dell’Africa orientale, e lì riposerebbe ininterrottamente. Come di recente ha confermato il patriarca etiope Abuna Paulos (1935-2012).

Non è chiaro, tuttavia, perché il figlio di Bilqīs-Makeda abbia portato il più sacro dei tesori della fede ebraico-cristiana in Etiopia e non ai confini meridionali dell’Arabia, presso la capitale storica del regno sabeo (all’incirca l’attuale Yemen): la città di Ma’rib, o Maribia, detta anche Saba, la coranica terra “dei due giardini” o “dei due paradisi” che fu divorata dalle sabbie del deserto del Dufar intorno al VI secolo d.C. per rinascere in tempi recenti come sito archeologico e di estrazione petrolifera. Era in questa città, o molto vicino a essa, che sorgeva il Maram  Bilqīs, il “Trono di Bilqīs”, insieme al tempio del dio lunare Ilumquh e a una monumentale diga destinata a crollare come la torre di Babele, lasciando dietro di sé un’eco di leggende raccolte dal geografo arabo Yāqūt al Hamawī (1179-1229), qualche anonimo insediamento di beduini e un cumulo di rovine infestate, secondo i racconti dei cercatori di tesori, dai ginn guardiani.

L’artefice di questo enigma dev’essere stata proprio la Regina di Saba, o meglio, la sua memoria propagatasi nel corso dei millenni di bocca in bocca, mutando come un camaleonte, arricchendosi di contenuti, appropriandosi di storie appartenute ad altre meno famose matrone, dee o diavolesse. Al punto che i teologi medievali non sapranno più se questa donna dal volto d’angelo e dalle zampe d’asino sia stata di nazionalità sabea o etiopica. Al punto che le origini stesse del regno di Saba e quelle di Axum si confondono, perdendosi nella notte dei tempi, all’epoca del fiorire di presunte colonie sabee nelle regioni a ovest del Mar Rosso (V-IV sec. a.C.), nella regione della futura Abissinia.

In un simile ginepraio, il nascondiglio dell’Arca diventa più sfuggente di un miraggio. Di questa reliquia, a oggi, possiamo solamente asserire con certezza che le rappresentazioni cinematografiche restano fedeli alla descrizione della Bibbia. Nel libro dell’Esodo si legge infatti che era un cofano in legno d’acacia rivestito d’oro e sormontato da un propiziatorio (coperchio) alle cui estremità comparivano due cherubini in oro rivolti l’uno verso l’altro, con le ali spiegate e ben distese in modo da adombrare il propiziatorio stesso.

È impossibile stabilire quale forma avessero questi cherubini, se antropomorfa, come i “moderni” angeli, o di sfingi egizie, karibu assiri o genî dal corpo di toro, leone e aquila così come li volevano i babilonesi. I testi sacri, d’altro canto, si mostrano concordi sul fatto che Dio usasse manifestarsi a Mosè, Aronne, Davide e Salomone proprio fra le ali di queste creature celesti.

Altro fatto assodato è che l’Arca, intesa come contenitore-reliquiario delle Tavole della Legge, non sia stata un unicum. Sappiamo infatti dell’esistenza di casse rituali del tutto simili utilizzate presso i templi egiziani, tra le quali una consacrata al dio Anubi. Ma a differenza di queste ultime, l’Arca dell’Alleanza peregrinò a lungo prima di trovare una sede definitiva. Costruita da un artigiano di nome Bezaleel in seguito alla fuga degli ebrei dall’Egitto, trovò collocazione temporanea a Silo, in Palestina, poi fu portata in guerra contro i Filistei e, dopo aver scatenato una pestilenza contro i nemici del popolo di Yahweh, trovò dimora a Gerusalemme.

Per breve tempo, dicono alcuni.

Se infatti la storia della Regina di Saba non fosse veritiera, e suo figlio – il mitico Menelik dal quale discenderebbero i sovrani d’Etiopia – non fosse stato altro che un’invenzione concepita da qualche amanuense africano, l’Arca potrebbe essere stata distrutta o rubata dal faraone Sheshonq I, che invase Gerusalemme nel corso del X secolo a.C. Oppure potrebbe essere andata perduta a causa del re babilonese Nabucodonosor (alla cui figura si ispira il Nabucco di Giuseppe Verdi), che nel 586 a.C. distrusse il Tempio di Salomone e forse per questo motivo, racconta la Bibbia, fu tramutato da Dio in una bestia.

C’è però un’altra leggenda dentro la leggenda. Quella del profeta Geremia che, per salvare l’Arca, l’avrebbe nascosta in una caverna del monte Nebo.

Una caverna destinata a restare inaccessibile fino alla fine dei tempi.

Quando le porte del destino, e della verità, si schiuderanno sull’umanità tutta.

 


11/07/2021

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