Joe Petrosino. «Il nostro sbirro che insegnò il mestiere agli americani»


Esce un romanzo sul poliziotto italiano primo esperto di antimafia: era l'unico capace di capire i dialetti del sud dei malavitosi di New York
 

di Costanza Cavalli

 
Succede a tutti quelli che ogni giorno cercano di sconfiggere il Male: anche quando hanno passato al setaccio tutte le debolezze dell'uomo, le facce sinistre del potere, le storture della mente, non riescono a rinunciare del tutto a fidarsi dei loro simili. E, pum, finiscono morti ammazzati. È successo così anche a Joe Petrosino, il primo maestro dell'antimafia, che a cavallo fra Ottocento e Novecento insegnò agli americani che tra gli italiani, in quei decenni da poveracci discriminati, non esistevano solo i ladri, ma pure le guardie. E che queste erano caparbie, furbe, e spietatamente lucide, quanto i criminali. 
A raccontare una parte della sua storia, a 110 anni dalla morte, è Salvo Toscano, uno degli scrittori emergenti della scuola palermitana noir, nel romanzo Joe Petrosino. Il mistero del cadavere nel barile (Newton Compton, 285 pp., 9,90 euro). Il futuro detective nacque Giuseppe nel 1860 in un comune malanda-to dell'Italia del Sud, Padula, in provincia di Salerno. Da là, se ne stavano andando tutti: la popolazione aveva aiutato i Mille che sbarcarono a Marsala, ma non gliene venne nulla, la zona rimase luogo di brigantaggio e di povertà.
 
EMIGRATO 

Così, a tredici anni, Giuseppe - diventerà Joe poco dopo - si ritrova a Little Italy, New York, circondato da calabresi, siciliani e pugliesi. Campa per un po' con la vendita di quotidiani, poi si inginocchia a lucidare scarpe e rimane nella polvere diventando netturbino. Gli italiani, nella Grande Mela, sono un taglia/incolla di quello che facevano in patria: disgraziati che puzzano di aglio, vivono facendo lavori da bestie e organizzano la malavita. La prima mafia newyorkese si chiama "Mano Nera", perché le bande praticavano estorsioni con lettere minatorie timbrate con un'impronta scura. E i poliziotti americani, per la maggior parte ebrei, irlandesi e olandesi, sono una crema che di quella roba non capiscono niente. A partire della lingua, un pasticcio di inglese e di dialetti, figurarsi delle loro teste. I mafiosi, quindi, prosperano. 
Petrosino non se ne andrà mai dalla polvere: ci è nato, sulle strade sterrate, poi ha battuto le strade della città cercando di sbolognare i fogli lerci dei giornali, e ne ha tolta molta, di polvere, dalle scarpe dei suoi clienti. Come spazzino, poi, ha imparato quanto lo sporco si annidi e come si nasconde. Diventa informatore del Dipartimento della polizia: è perfetto. Basso, rotondetto, spalle larghe, collo taurino, bombetta sul capo; ma soprattutto è italiano. Ed è talmente incarognito per la figura che gli fanno fare i suoi connazionali che diventa il più cattivo di tutti. 
 
IL CASO 
Il titolo del libro di Toscano prende il nome da uno dei casi più eclatanti che il campano si trovò a risolvere: la mattina del 14 aprile 1903, una domestica trova un cadavere in un barile abbandonato su un marciapiede dell'undicesima Strada Est. La vittima ha «uno squarcio nella gola che aveva quasi staccato la testa dal corpo» e «i genitali in bocca». 
Durante le indagini, Petrosino si imbatte in Vito Cascio Ferro, il mafioso che portò a New Yorkil "pizzo", cioè il piccolo taglieggiamento dei commercianti. Mettersi contro Don Vito (che «è venuto per prendersela l'America», scrive Salvo appena fa sbarcare il personaggio «con passo lento e solenne», e «non è venuto a chiedere nulla») non è certo una mossa prudente. Il boss terrà per lungo tempo la foto del poliziotto nel portafogli, e non come santino. Petrosino, uno degli undici poliziotti di tutta la città che parla italiano, diventa un temibile avversario della criminalità: sviluppa tecniche ancora oggi praticate dalle forze dell'ordine, ottiene il supporto di Teddy Roosevelt, non ancora presidente degli Stati Uniti ma assessore alla polizia, salva il tenore Enrico Caruso, ricattato dai gangster, da un attentato al Metropolitan e poi si fa aiutare da lui per catturare un gruppo di mafiosi. 
Mette insieme l’Italian Branch, squadra tutta italiana di poliziotti dedicata alla lotta contro la Mano Nera. Cerca di sventare l'attentato al presidente William McKinley, ma alla Casa Bianca non gli danno retta e McKinley viene fatto fuori nel 1901. Dicevamo all'inizio dell'inesausta fiducia nel genere umano: Petrosino tornò in Italia per seguire una pista che avrebbe dovuto tagliare le gambe al racket della Mano Nera. Doveva essere un viaggio segreto, ma la notizia trapelò venne pubblicata sul New York Herald. L'italiano se ne fregò: la mafia non ammazza i poliziotti, si disse, non osa farlo in America, non lo farà in Sicilia. Venne ucciso alle 20.45 di venerdì 12 marzo 1909, vicino alla fermata del tram di piazza Marina, a Palermo. Un colpo di pistola al collo, due alle spalle, uno alla testa. Al suo funerale, a New York, sfilarono in marcia funebre 250mila persone: i più imponenti funerali che la città avesse mai celebrato furono per il primo "broccolino" che dedicò la vita, e la morte, a difenderli.

Fonte: Libero 22/02/2019

 


22/02/2019

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