Joe Petrosino, il detective antimafia a New York


L'ITALO-AMERICANO Nel 1873 partì da Salerno, senza soldi, per trovare fortuna nella Grande Mela. Inizia come lustrascarpe, poi entra in polizia e inizia a sfidare i padrini siciliani. Verrà ucciso a Pale.

di Salvo Toscano


Poco prima delle nove di sera del 12 marzo del 1909 l’esplosione di quattro colpi di arma da fuoco risuonò tra le mura dei palazzi che circondano piazza Marina a Palermo. “…per proditoria mano mafiosa, tacque la vita Joe Petrosino…” recita la targa posta sul luogo del delitto di cui quest'anno ricorre il centodecimo anniversario.
Giuseppe Petrosino era emigrato da Padula, nel Salernitano, dove era nato nel 1860, a New York nel 1873. Piccolo di statura, robusto e forte, era uno dei meridionali che i transatlantici che facevano spola tra il vecchio e il nuovo continente vomitavano a migliaia in quegli anni successivi all'Unità d'Italia nei quali il Sud impoverito si svuotò.
In quell'ultimo scorcio di Ottocento, gli italiani arrivano al cospetto della Statua della Libertà con cinque dollari in tasca in un Paese di cui poco o nulla sanno, affollano gli edifici del quartiere di Little Italy, tra Mulberry Street, la strada dei napoletani; Elizabeth Street, una piccola Sicilia e Mott Street, che si riempie di calabresi e pugliesi.

Vivono stipati in appartamenti affollati e poverissimi. Si spaccano la schiena per un dollaro al giorno o meno, scavando la metropolitana o scaricando merce al porto. Manodopera a basso costo, per lo più “briccolieri”, storpiatura dell’inglese “bricklayer”, muratore. Qualcuno si fa strada, è il sogno americano, mettendo su un’attività. Ma tra i tanti disperati che sbarcano ai piedi della Statua della Libertà non mancano i delinquenti con tanto di pedigree criminale. Si diffonde così la Mano Nera, la chiamano così perché le bande inviano lettere minatorie con il disegno di una mano nera. Ma tra le bande di marioli che ricattano (e la parola ricatto, anglicizzata diventa “racket”) piazzando bombe ai danni di chi non vuole piegarsi, si fa strada anche la prima famiglia della mafia newyorchese, quella con a capo Joe Morello, don Piddu, un corleonese detto l’Artiglio, per via di una mano deforme con un solo dito, il mignolo.
Giuseppe Petrosino dopo essersi guadagnato da vivere come lustrascarpe e spazzino, entra in polizia. È uno dei pochi italiani nel dipartimento a capire i dialetti meridionali, a poter interpretare i segnali, i codici e le regole della criminalità che ha già buttato i suoi semi a Manhattan. Ed è per questo che all’alba di un piovoso giorno di aprile del 1903, quando una domestica di origini irlandesi trova in un barile sul marciapiede in una strada del basso East Side un cadavere orribilmente mutilato, viene incaricato del caso.

Il tenace italoamericano, insignito del grado si sergente, niente di meno che da Teddy Roosevelt, commissario della polizia newyorkese prima di diventare presidente degli Stati Uniti, è già noto per essere abile nei travestimenti e nell'infiltrarsi tra i bassifondi di Little Italy. Mentre indaga sul misterioso cadavere nel barile va a sbattere proprio su Joe Morello e sulla sua ghenga, una banda con numerose ramificazioni, un'organizzazione piramidale sorretta dall'omertà. Petrosino indaga sul caso anche grazie alla collaborazione con i servizi segreti, all’epoca specializzati nel contrasto del contrabbando di banconote false. Come nella migliore tradizione, Joe, per arrivare alla soluzione del caso pesterà molti piedi. E si metterà contro il temibile Vito Cascio Ferro, destinato a diventare Capo dei capi. Il mafioso palermitano era approdato negli Stati Uniti all’inizio del Novecento, preceduto dalla sua fama. Leggenda vuole che fu lui a esportare a New York il sistema del “pizzo”, ossia l’idea di estorcere in modo capillare piccole somme di denaro a titolo di “protezione”. Ai commercianti taglieggiati, i mafiosi non chiedevano più somme esorbitanti ma si accontentavano di “bagnarsi il becco”, il “pizzo” appunto. Nell’indagine sul morto del barile finì anche Cascio Ferro, che pensò bene di togliersi di torno riparando in Louisiana. Da lì, il boss rientrò in Sicilia portandosi dietro, si narra, proprio una foto di Petrosino. Un dettaglio che riemerse quando nel 1909, il poliziotto di Padula, diventato tenente, trovò la morte per mano mafiosa a Palermo.
Fino al momento della sua morte Petrosino si distinse per intelligenza e fiuto investigativo, la stampa gli attribuì l’appellativo di Sherlock Holmes italiano, diventò l’incubo di gangster e malavitosi e dopo i numerosi successi investigativi dette vita alla mitica Squadra Italiana, un pugno di detective incaricato di combattere la crescita esponenziale della malavita arrivata da oltreoceano. Accanto alle vessazioni dei criminali loro connazionali, gli italiani d'America in quegli anni dovettero fronteggiare altri più subdoli nemici: il razzismo, il pregiudizio, la discriminazione. Un clima ostile che nel 1891 era esploso nel tragico linciaggio di New Orleans, dove una folla inferocita fece irruzione nella prigione locale e massacrò undici detenuti italiani.

Petrosino sperimentò sulla sua pelle il pregiudizio contro gli italiani di quegli anni, emblematica fu la sua indagine che permise di salvare la vita, pochi giorni prima dell'appuntamento con la sedia elettrica, a un immigrato siciliano condannato per omicidio dopo un processo sommario. Una pagina oscura e dolorosa, quella delle sofferenze dei nostri emigranti, di cui l'Italia degli ultimi tempi rischia di perdere la memoria. E furono proprio uomini come Petrosino, fieramente italiano e americano, della cui storia si è innamorato anche Leonardo Di Caprio in procinto di realizzarci un film, a permettere di superare quella stagione, facendo sì che in breve tempo la comunità italiana diventasse un pilastro della società newyorchese. Un esempio ancora in grado di ispirare, centodieci anni dopo la sua morte.

Fonte: Il Fatto Quotidiano 18/02/2019


18/02/2019

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