Intervista a Vittorio Avanzini, fondatore e Presidente di Newton Compton


INTERVISTA A CURA DI
Alessandro Gnoli

FONTE: La Repubblica

Il dottor Avanzini Vittorio veste in maniera inappuntabile. Ogni mio pensiero brutale arretra davanti a una rigida e innocente eleganza di altri tempi. Guardo le sue mani ben curate, il volto serenamente incastonato in un ovale di parole liete, che sembrano pettinate dalle mani di un barbiere, e penso a come quest`uomo sia uscito indenne dal darwinismo editoriale di questi anni. Avanzini parla del suo lavoro di editore. E lo fa con la scaltrezza tutta italiana di chi sa che se non puoi combattere i tuoi nemici fai in modo di adottarli, con benevolenza e umiltà: «II vecchio Arnoldo Mondadori? Un grande self made man. Come il vecchio Rizzoli, del resto. Einaudi? Un signore, un principe rinascimentale. Peccato che un giorno fallì», si guarda le unghie mentre misura le parole in quell`ufficione di via Panama dove ha sede la Newton Compton. I libri, tutti rigorosamente Newton sovrastano ogni spazio lasciando solo questa zattera di scrivania sulla quale mi aggrappo un po` disperato. Perché sono qui? La cosa che mi incuriosisce, che mi ha spinto in questo angolo elegante di Roma è quel senso di fastidio che si prova ogni qualvolta si sente pronunciare la parola "Newton Compton": «Ho vissuto da escluso, sono stato messo spesso ai margini da un mondo che riteneva che per fare l'editore si dovessero avere particolari natali, o un'eleganza mentale scesa direttamente dall'alto. Erano stupiti, i miei colleghi. Ma come? Anche lei del mestiere? E più segnavo un punto a mio favore più venivo visto come un pericolo, una minaccia per l'editoria, forse perfino l'esito di un dramma grottesco».

È un bello sfogo. Si sente ancora un paria?
«No, anche se altri hanno provato a farmici sentire. Non ci sono riusciti. Vede? Questa stanza, a parte il budda tailandese, il divano su cui faccio sedere i miei collaboratori, questa scrivania dove lavoro, il resto sono i nostri libri. La 
nostra fortuna. Il nostro lavoro».

Il tutto quando ha inizio?
«Sono stato libraio a Roma, quando le librerie erano fantasmi. Era il 1960, ultime notizie dal boom, l'autostrada del Sole ancora in costruzione, gli intellettuali che giocavano a fare gli intellettuali e io con una laurea in economia e commercio appassionato dilettante di libri. Mi dissi: potrei venderli. Dopo qualche tempo, pensai: potrei produrli. Con un gruppo di soci aprimmo, nel 1964, l`Avanzini e Torraca. Ben presto ci dividemmo, dopo aver 
avuto qualche intuizione editoriale».

Del tipo?
«C'era stata la grande svolta del tascabile cominciata nel 1965 con l'Universale Feltrinelli. L'editoria si mise in agitazione. Vendevano Il Gattopardo a 300 lire e il Dottor Zivago a 500 lire. Il vecchio Mondadori si impressionò e come tutta risposta creò gli Oscar a 350 lire. Pensai che il futuro era nei libri a buon mercato. Decidemmo di tentare la sorte pubblicando l'opera del Belli in cinque volumi a un prezzo contenuto».

C'era già un'edizione importante.
«E costosa, in tre volumi, curata da Giorgio Vigolo. Affidai la cura dell'opera a Bruno Cagli, un personaggio versatile, musicologo, direttore di teatri artistici, grande esperto di Rossini e appassionato del Belli. Fu il nostro primo tascabile. Poi, nel 1969, la casa editrice si sciolse per incompatibilità tra i soci. Fondai la Newton Compton».

Perché scelse quel nome?
«Pensavo di fare soprattutto editoria scientifica. Newton era Isaac e Compton era Arthur, premio Nobel della fisica, che era riuscito grazie alle sue ricerche sulla luce a fornire una spiegazione pratica di certi effetti della quantistica. Era complicato e rischioso fare esclusivamente una saggistica scientifica. Soprattutto in un paese che di scienza ne mangiava pochissima. Erano anni tumultuosi, politicamente fiammeggianti: il proletariato, gli studenti, le fabbriche, l`università. Tutto un ribollire di iniziative. Pensai che la cosa migliore era dargli il padre di tutto questo: Karl Marx e il suo libro più famoso: Il Capitale».

Più che un libro una leggenda.
«Di cui gli Editori Riuniti avevano fornito un'edizione in tre volumi. Decisi di raccogliere tutto Il Capitale in un unico volume, al prezzo di 4 mila lire. Pensi che durante gli scontri di Valle Giulia gli studenti lo usavano come un mattone contro la polizia! A parte l'uso improprio quell'opera andò a ruba. Ma non fu la sola ragione del nostro successo».

E quale altra?
«La legge sul diritto d'autore - che riprendeva la Convenzione di Berna - stabiliva il pubblico dominio per tutte le opere pubblicate in lingua originale anteriormente al primo agosto 1921, e non tradotte in Italia nel decennio successivo alla prima pubblicazione in lingua originale».

Una specie di finestra temporale.
«Di cui pochissimi conoscevano l'esistenza. Un piccolo editore, con qualche problema finanziario, mi propose di pubblicare L'interpretazione dei sogni. Gli risposi che Freud era ancora sotto diritti. Mi informò che grazie a quella legge alcune opere, apparentemente sotto diritti, si potevano considerare libere. Era una grande opportunità. Pubblicai così Freud e per renderlo allettante lo tematizzai: raccolsi per prima cosa gli scritti in cui parlava della sessualità. Esaurimmo la tiratura».

Il vostro Freud fu sommerso dalle critiche.
«Molte delle quali furono pretestuose e dettate dall'invidia».

Chi curava l'edizione?
«Flavio Manieri, uno psicanalista lacaniano. Secondo me fece un ottimo lavoro. Aveva il difetto di tormentarmi con Lacan. Voleva che lo traducessimo e lo pubblicassimo e io a rispondergli: neanche morto, quello non vende una copia. Alla fine si rassegnò».

Chi non si rassegnò fu Paolo Boringhieri, la cui casa editrice pubblicava l'opera completa di Freud.
«Tentò in tutti i modi di ostacolarmi. Certo, vantava la presenza di due specialisti illustri: Renata Colorni che traduceva dal tedesco e Cesare Musatti, allora il più autorevole interprete del pensiero psicoanalitico. Ma io non guardavo al mondo della psicoanalisi bensì a quello ben più vasto dei potenziali lettori. Chi erano? Gente semplice spesso incapace di entrare nelle sottigliezze dell`inconscio e tuttavia desiderosa di saperne di più».

E l'odio di Boringhieri?
«Parlerei di disprezzo. Come se davvero pubblicando Freud gli avessi rubato l'argenteria di casa. Considerava la mia operazione editoriale una degenerazione del sistema. A quel punto decisi che era il momento di appropriarmi anche di Jung».

Che anni erano?
«Arrivammo verso la fine degli anni Settanta. La saggistica politica languiva. La gente non ne poteva più di sparatorie, di sequestri, di manifestazioni. Pensai che

fosse giunto il momento di dedicarmi alla poesia. Nell'estate del 1979 c'era stato il festival dei poeti a Castel Porziano. Un delirio di cui tutta la stampa si occupò».

Fu effettivamente un grande evento.
«Arrivò di tutto e tutto sembrò iscriversi sotto il segno della beat generation. Onestamente non me ne fregava niente delle loro vicende libertarie, delle promiscuità sessuali dí Gregory Corso o di Allen Ginsberg. Pensavo che la cosa importante era che quella gente aveva trasferito il piano della protesta dalla politica alla poesia. Caso volle che mio fratello rientrando da Londra mi dicesse ma perché non pubblichi Bob Dylan? Era un mito, ma a parte qualche edizione pirata dei testi delle sue canzoni, non c'era nulla. Pensai che potesse essere interessante occuparmene».

L'uomo era abbastanza difficile.
«Difficile? Impenetrabile. Non aveva un agente che lo rappresentasse in Italia. Chiesi alla Rc a come comportarmi per i diritti. Non sapevano a chi avrei potuto rivolgermi. Decisi di rischiare e di pubblicarlo. Chiamai un ottimo traduttore, Stefano Rizzo, e affidai a Fernanda Pivano il compito di scrivere l`introduzione. Il libro uscì e andò benissimo».

Nessuno si fece vivo?
«Un avvocato americano ci scrisse con piglio aggressivo. L'incontrai a Roma. Pagai la penale, le royalties e infine chiesi l`autorizzazione per fare un altro libro. Me l'accordò con piacere».

I soldi sanano tutto.
«I soldi sono la lingua che tutti parlano e credo di conoscerla molto bene. Ma le dicevo della poesia».

Un genere che non ha mai avuto successo da noi
«Si sbaglia. Chiesi chi era il poeta che andava per la maggiore. Mi risposero: Garcia Lorca. Era nobilmente pubblicato nelle edizioni Guanda, in due volumi rilegati. Scoprii anche che il Libro de poemas era uscito nella primavera del 1921 e che per un solo mese rientrava nel pubblico dominio. Lo feci tradurre a Claudio Rendina. Uscimmo con una tiratura di 10 mila copie, prezzo di copertina mille lire. In una settimana andò esaurito. Passai a Machado, allora pubblicato da Lerici, fu un altro successo. Ma il vero colpo fu un altro».

Quale?
«Jacques Prévert, un autore molto amato e stretto nelle mani di Guanda e Feltrinelli. Non sapevo come liberarlo. Ordinai tutte le sue opere pubblicate da Gallimard e mi accorsi che c'erano ancora tantissime sue poesie inedite in Italia. Tranquillamente avrei potuto farne due volumi. Scrissi a Gallimard che aveva i diritti. Passarono tre mesi. Nessuna risposta. A quel punto mandai un telegramma: disposto a comprare i diritti di Prévert, offro anticipo di due milioni, una cifra allora notevole».

E loro?
«In 48 ore mi arrivò la risposta di Nora Kasteliz, capo dell'ufficio diritti, con annesso contratto. Il libro di Prévert ha venduto centinaia di migliaia di copie. Ma la mia idea era anche di pubblicare Pablo Neruda che allora andava per la maggiore. Contattai il suo traduttore italiano che fungeva anche da agente. Ma bisognava convincere la vedova di Neruda. Seppi che veniva a Roma per un convegno. La incontrai».

Che donna le apparve?
«Neruda nel corso della sua vita aveva avuto numerose amanti. Era stato sposato, separato e alla fine conobbe questa donna, un`infermiera, con la quale condividerà l`esilio cileno. Si chiamava Matilde Urrutia. Era una donna forse appesantita dagli anni. Ma ancora bella. A me ricordava certe attrici italiane degli anni Quaranta. Alla fine ci permise di fare un`antologia delle sue poesie. Tirammo inizialmente 130 mila copie. Nello stesso periodo Einaudi metteva fuori La storia. Elsa Morante aveva imposto il prezzo di 2000 lire. Furono i due bestseller di quell`anno: il 1974».

Però continuavano a vedervi con fastidio.
«Diciamo che eravamo antipatici per la nostra politica aggressiva sui prezzi bassi. Si facevano noiosissimi convegni sul perché la gente non leggeva, perché l`Italia era agli ultimi posti in Europa. La risposta, oltre che nei libri astrusi, era nei prezzi di copertina alti. Fummo noi a scoprire il filone delle storie locali e contemporaneamente a lanciare i paperback sulle civiltà scomparse. Avevo in mente Peter Kolosimo».

Lui fu un fenomeno editoriale.
«Era nato a Modena e si era dato, abilmente, quel nome anglosassone. Fu il primo in Italia a occuparsi di astronavi nella preistoria, misteri del cosmo, viaggi nel tempo. I suoi libri vendevano tantissimo. Ma in realtà era legato ad altri editori. Più seriamente affidai la collana sulle civiltà a Sabatino Moscati, il grande studioso dei fenici. Fu lui, tra l`altro, a presentarmi un altro grande: Giuseppe Tucci».

L`orientalista?
«Andai a trovarlo all`Ismeo in via Merulana a Roma. Vidi un uomo ormai novantenne ancora lucido, con una personalità fuori dal comune. Stizzito e intristito perché i suoi libri da decenni erano introvabili. Glieli pubblico io, dissi. Mi ringraziò. Uscimmo coni suoi bellissimi diari sul Tibet e poi i viaggi in Nepal, le riflessioni sulla filosofia indiana e sul buddismo. Erano gli anni in cui avevano cominciato a frequentarci lo storico dell`architettura Bruno Zevi e l`antropologo Alfonso Di Nola. Non avevano alcun pregiudizio. Sapevano che una casa editrice oltre a essere un`impresa culturale è anche un`impresa economica. Con gente che ci vive e ci lavora. I libri sono fatti anche per pagare gli stipendi e i fornitori».

In più di un`occasione avete rischiato una crisi senza ritorno.
«È vero, ma ne siamo sempre usciti con le nostre gambe. Tutta la mia vita l`ho dedicata ai libri. Non c`è molto altro. A volte penso che in un paese normale mi avrebbero fatto un monumento e invece niente. A lungo sono stato considerato un outsider. Ne ho sofferto ma, al tempo stesso, è stato uno stimolo in più. Per non darla vinta a quelli che ti guardano dall`alto in basso. Aver venduto più di un milione di copie de L`interpretazione dei sogni o 200 mila copie dell`Amleto di Squarzina non è da tutti. Ci vuole intuizione commerciale. È la migliore risposta a chi ha cercato di emarginare la nostra storia editoriale».


LA BIOGRAFIA
Romano, nato il 24 agosto 1938, fondatore e attuale presidente della casa editrice 
Newton Compton, Vittorio Avanzini ha attraversato cinquant`anni di editoria italiana.


GLI INIZI
Vittorio Avanzini nasce a Roma nel 1938. Dopo la laurea ín economia e commercio, comincia la sua attività come libraio, nel 1960.
LA SVOLTA
Nel giro di pochi anni, Vittorio Avanziní passa dalla vendita dei libri alla loro produzione. È il 1964, infatti, quando vede la luce la casa editrice "Avanzini e Torraca". I due soci poi sí separano e nel 1968 nasce il suo nuovo marchio, Newton Compton
LE COLLANE
Tante quelle di successo: dai Grandi Tascabili Economici alla collana 100 pagine, a 1000 lire ai Mammut. Oggi la casa editrice, di cui Avanzini è tuttora presidente, è guidata operativamente da suo figlio Raffaello
LE USCITE E IL PREMIO
Tra gli autori di punta di Newton Compton c`è Marcello Simoni, ai primi posti ín classifica con L`abbazia dei cento inganni.
Pochi giorni fa Avanzini ha ricevuto la "Gerla d`oro" alla carriera del Premio Bancarella.


01/08/2016