Intervista a Juan Pablo Escobar: «Sono il figlio di Escobar ma preferivo vivere» di Omero Ciai


La fuga dopo la morte di suo padre. L`abbraccio con i parenti delle vittime. Ora un libro per chiudere col passato. L`erede del re della coca si racconta: «Non ho mai conosciuto narcos felici».

L`AUTORE È IN ITALIA PER PARTECIPARE ALL’VIII EDIZIONE DEL FESTIVAL LIBRI COME. 

ALLE 17 DOMENICA 19 MARZO DIALOGHERÀ CON GIANCARLO DE CATALDO ALL’AUDITORIUM DI ROMA 

«Quando mio padre morì avevo sedici anni. La prima reazione fu un desiderio di vendetta. Lo dissi alla giornalista che mi chiamò per dirmi che Pablo Escobar era morto. Le dissi che lo avrei vendicato. Ma lo pensai solo per pochi minuti. Mi resi subito conto che se volevo sopravvivere, insieme a mia madre Maria Victoria e a mia sorella più piccola Manuela, avrei dovuto comportarmi all`opposto di mio padre. Non conosco narcos felici, che vivono in pace. Ma solo narcos morti o chiusi per sempre in un carcere. Non era la vita che volevo». Dopo la morte del padre – uno dei narcotrafficanti più crudeli della storia, che per un decennio (1983-93) scatenò in Colombia una guerra che provocò centinaia di morti – Juan Pablo, condannato a morte come figlio del boss dai cartelli rivali, fuggì grazie a una nuova identità prima in Mozambico, poi in Argentina. A Buenos Aires studiò architettura e iniziò a lavorare, finché non recuperò il suo passato e scelse un cammino di redenzione che lo ha portato a incontrare e chiedere perdono ai figli delle vittime di suo padre. E a scrivere due libri, tra inchiesta e memoria, il secondo dei quali (Pablo Escobar, gli ultimi segreti dei narcos raccontati da suo figlio) esce in questi giorni in Italia edito da Newton Compton. 

Si era scelto come nuovo nome Sebastiàn Marroquín. Quando e perché ha deciso di tornare a chiamarsi Escobar? 

«In realtà fu per caso. Un ragioniere che avevamo incontrato a Buenos Aires per acquistare un appartamento ci truffò e per non restituirci il denaro rivelò ai giornali chi eravamo veramente. In Argentina ci arrestarono e processarono. Una vicenda che è finita soltanto nel 2007, quando la Corte Suprema riconobbe la nostra innocenza. Avrei potuto comunque continuare a vivere nell`anonimato rifiutando tutte le proposte di raccontare la mia storia e di partecipare a film su mio padre. Ma divenne l`occasione per fare i conti con il mio passato. Iniziai a cercare i figli delle vittime di mio padre e a confrontarmi con tutto il male che aveva fatto».

Il primo fu Rodrigo, il figlio del ministro della Giustizia Lara Bollino ucciso in un agguato dai sicari di suo padre? 

«Sì, lo fece ammazzare perché aveva denunciato che era un narcotrafficante quando ancora tutta la Colombia credeva alla favola che mio padre fosse soltanto un ricco e fortunato imprenditore. Con Rodrigo ci abbracciammo e lui mi disse: "Ho accettato di incontrarti perché siamo entrambi orfani e dobbiamo condannare insieme la cultura della violenza, Ia Colombia ha bisogno di una cultura di pace". Poi ho incontrato e abbracciato i quattro figli di Luis Carlos Galàn, il leader del partito liberale che venne assassinato su ordine di mio padre durante un comizio elettorale nel 1989. E poi Aaron Seal, il figlio del pilota che tradì mio padre e denunciò alla Cia che stava organizzando spedizioni di cocaina negli Stati Uniti dal Nicaragua con la protezione del governo sandinista di Daniel Ortega. Pablo Escobar pagò migliaia di dollari per assassinarlo in Louisiana all`inizio del 1986». 

È diventata quasi un`ossessione questa sua ricerca di riconciliazione con i parenti delle vittime di suo padre? 

«Non programmo nulla, molte persone le ho incontrate quando ho presentato i miei libri. E la verità più singolare è che oggi ho ottime relazioni con chi subì la violenza di mio padre più che con quelli che grazie a lui si arricchirono o approfittarono della sua generosità. Come la mia famiglia paterna, mia nonna e mio zio Roberto che lo tradirono». 

Che fine ha fatto la sterminata fortuna di suo padre, diversi miliardi di dollari? 

«Pablo Escobar sperperava il denaro, con il narcotraffico aveva incontrato la formula magica per fare miliardi e si comportava come se non avrebbe mai smesso di farli. Ostentava la sua ricchezza e desiderava che i colombiani lo immaginassero come il loro Robin Hood. A Medellin si dice che “gli pesava il portafoglio…”. Quando io ero bambino acquistò una fattoria di 2 mila ettari per 2 milioni e mezzo di dollari, la Hacienda Nàpolés, che riempì comprando centinaia di animali esotici, dai pappagalli, alle giraffe, agli elefanti, e trasformò in un Luna Park dove invitava migliaia di persone. Poi moltissimo denaro lo investì nella guerra contro lo Stato, contro l`estradizione dei narcos negli Stati Uniti, i suoi nemici del Cartello di Cali, i gruppi paramilitari e i Pepes, le brigate armate delle “vittime di Escobar” che volevano ucciderlo. Alla fine, quando morì, il 2 dicembre 1993, io e mia madre consegnammo tutto quello che restava, dai quadri di Fernando Botero alle proprietà immobiliari, ai boss del Cartello di Cali e agli altri suoi nemici affinché non ci uccidessero e ci lasciassero andare in esilio». C`era anche un famoso quadro di Salvador Dalí? 

«Sì, Rock and roll. Valeva 3 milioni di dollari. Mia madre lo regalò, come gesto di pace, a un capo dei paramilitari, Carlos Castaño. Dalla Colombia noi partimmo in autobus per l`esilio verso l`Ecuador, e con quasi nulla addosso». 

Perché ha criticato Narcos, la serie tv di Netflix ispirata alla storia di suo padre? 

«Hanno sbagliato perfino la squadra di calcio colombiana per cui tifava! In un capitolo poi c`è mia madre che spara, un dettaglio falso perché lei non ha mai usato una pistola. Le scene e le situazioni completamente inventate sono moltissime, ma non è solo questo. Narcos è una serie che fa apologia dei criminali. Lei non si immagina quante persone mi scrivono sui social network, da ogni parte del mondo, per raccontarmi che hanno visto il film e dirmi che adorano mio padre, che vorrebbero essere come lui, e mi chiedono di aiutarli per emularlo». 

Come si combatte il narcotraffico? 

«Con la legalizzazione delle droghe. Senza il proibizionismo mio padre non sarebbe esistito. Era un delinquente fin dall`adolescenza, ma senza il traffico illegale della cocaina non avrebbe mai potuto accumulare tutto quel potere. Sognava di diventare presidente della Repubblica e aveva i soldi per farlo. Finché ci saranno consumatori di cocaina il problema si può risolvere solo autorizzando e regolando la vendita. Io destinerei il ricavato a promuovere l`arte, la cultura, l`istruzione». 

Lei scrive che suo padre non venne ucciso ma si suicidò quando si rese conto che era circondato. 

«È morto per un colpo in testa all`altezza dell`orecchio, esploso a pochi centimetri dal cranio. Quando ero ragazzino mi disse mille volte che non si sarebbe fatto prendere vivo». 

Tornerebbe a vivere in Colombia? 

«Meglio di no. Sono tornato a Medellin solo per brevissimo tempo». 

Ha la cittadinanza argentina? 

«No, la chiesi molto tempo fa, ma non mi hanno mai risposto». 

Sulla tomba di suo padre, nel cimitero di Medellín, ogni mattina gli ammiratori portano fiori freschi. Ma il suo ultimo desiderio era essere seppellito all`ombra di una grande ceiba nell`Hacienda Nàpolés. Vorrebbe esaudirlo? 

«Se riuscissi a farlo non lo racconterei». 

Ha perdonato suo padre? 

«Non posso essere io a giudicarlo. Questo non vuol dire che le sue azioni non fossero criminali e spietate ma io l`ho amato e ho vissuto fino in fondo la contraddizione che c`era tra un padre dolce e affettuoso e il brutale assassino narcos». 

C`è anche chi la accusa di sfruttarne la storia. 

«Sono suo figlio e sono uno dei pochi testimoni ancora vivi di quel tragico decennio. Magari sono anche l`unico che ha il diritto di farlo, no?».

Omero Ciai
Fonte: Il Venerdì di Repubblica, 17/03/2017


17/03/2017

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