Il monastero sul mare di Marcello Simoni


Fonte: Il Sole 24Ore

Iniziamo la pubblicazione del romanzo dell’estate in 4 puntate, un racconto lungo di Marcello Simoni scritto per la Domenica. Simoni, quarantenne di Comacchio, ex archeologo e bibliotecario, ha avuto successo come romanziere d’avventura per Newton Compton. Con l’esordio, Il mercante di libri maledetti, è rimasto un anno in classifica e ha vinto il 60° Premio Bancarella. Le avventure del mercante proseguono in altri due romanzi medievali, La biblioteca perduta dell’alchimista e Il labirinto ai confini del mondo. All’Isola dei monaci senza nome, ambientato nei mari della Toscana del ’500, tra cristiani rinnegati e corsari ottomani, si è ispirato per scrivere questo racconto. Simoni torna al Medioevo con un trittico sull’abbazia di Pomposa e gli intrighi della Ferrara trecentesca: L’abbazia dei cento peccati, L’abbazia dei cento delitti e L’abbazia dei cento inganni, appena uscito.

Il monastero sul mare
a cura di Marcello Simoni

Agosto 1544, isola di Montecristo 

La piccola imbarcazione affiorò dal nero della notte, tra lo sciabordio delle onde che scintillavano sotto il primo quarto di luna. Era un caicco a dieci remi, l’unica vela imbrogliata, intento a procedere a voga corta, seguendo gli ordini di un uomo avvolto in un mantello di broccato. Non era lui a comandare, bensì l’individuo al suo fianco. Ingobbito, celava sotto un cappuccio dei lineamenti deformi che al palpitare del fanale rivelavano una pelle squamosa, quasi verdastra. La ciurma lo detestava, covando nei suoi riguardi un gran disgusto. Egli tuttavia non si curava delle loro occhiate, continuando imperterrito a tracciare la rotta. «Là», proferì d’un tratto, indicando una cala che si apriva tra le rupi di granito. Il caicco aggirò una conformazione di scogli e, scivolando sull’acqua, imboccò l’insenatura. Subito dopo aver toccato la riva, i membri dell’equipaggio imbracciarono archibugi e mezze picche, mettendosi in marcia su una spiaggia completamente deserta. Il vento salmastro li accompagnò per un sentiero in salita, tra lecci e arbusti di erica, dove gli unici rumori provenivano dagli uccelli marini che nidificavano sulle alture. Inerpicarsi al barlume delle fiaccole non fu impresa facile. L’uomo deforme avanzò con ostinazione, incurante dei sassi che franavano sotto i suoi piedi. Ogni passo era un gesto di rabbia, ogni respiro un’imprecazione. Se alla fine poté scorgere il monastero abbarbicato sul promontorio, fu solo grazie al sorgere dell’alba. Come lo vide, fece cenno alla compagnia di proseguire per una gradinata scavata nella roccia, senza voltarsi a osservare la distesa di blu cobalto che iniziava a risplendere fino alla Costa d’Argento. L’edificio era vetusto, roso a tal punto dalle tempeste e dal sole da aver assunto gli stessi colori delle pietre che lo circondavano. Dopo un secolo d’abbandono, gli sterpi avevano preso a crescere persino sul tetto. Malgrado ciò, l’incappucciato non esitò a correre fino al portale e a bussare con violenza. L’uomo col mantello si mantenne arretrato. «Frenate la foga, eccellenza», lo beffeggiò, fomentando le risate degli armati. «Non vi accorgete che il luogo è deserto?» «Tacete!» sibilò l’altro, mentre la sua smania lo induceva a picchiare con ambo i pugni, facendo tremare il battente. «Deve esserci qualcuno! Deve!». A conferma di quelle parole, si udì lo scatto di un chiavaccio e il rumore del portale che si apriva, dopodiché comparve un monaco con la tonaca a brandelli. «Chi postula?». «Vi trovate alla presenza di Jacopo V Appiani, principe di Piombino e dell’arcipelago toscano», esordì con orgoglio l’uomo deforme, per poi indicare il suo accompagnatore. «Costui invece è il comandante Giannettino Doria, che naviga sotto l’insegna dell’aquila nera di Genova». Il monaco osservò gli armati in attesa fra le rocce, infine si soffermò sul volto deturpato del principe di Piombino. «Ebbene», disse, «a cosa devo l’onore?» «Fateci entrare e lo riveleremo all’abate». «L’abate?», ridacchiò. «Qui non c’è nessun abate, vostra grazia». «Come sarebbe a dire? Non è questo il monastero di San Mamiliano? Non vige il sant’ordine dei Camaldolesi?». L’asceta scosse il capo. «I benedettini bianchi se ne sono andati da tempo. Ora potete trovare soltanto eremiti». «Di bene in meglio», sbuffò il Doria, lasciando intendere di voler ripiegare verso la spiaggia. «Aspettate!», lo trattenne l’Appiani. «Abbiamo comunque il dovere di controllare». «Il mio dovere è verso la flotta che ho lasciato al largo dell’isola del Giglio», obiettò il genovese. «Pertanto spicciatevi». Con un cenno d’assenso, il signore di Piombino si rivolse nuovamente al monaco. «Vedete la mia faccia?», e abbassando il cappuccio, mostrò l’orrenda cicatrice che gli solcava una guancia. Tutt’intorno c’erano dei bubboni putrescenti, il più grosso dei quali, di una sfumatura verdastra, gli deturpava un’occhiaia. «È a causa di un diavolo maomettano se sono ridotto in questo stato! Il veleno di cui era intrisa la sua lama scorre nel mio sangue, rendendo vana ogni cura, ogni speranza di guarigione! Sono un cadavere che respira ancora per miracolo, capite? Quindi non sottraete tempo alla mia vendetta, giacché di tempo ce n’è poco!». «Io...», si schermì l’eremita. «Io non so nulla!». «Il suo nome è Sinan», continuò l’Appiani con sprezzo, «ma prima che rinnegasse la Croce era noto come Cristiano d’Hercole. Suo padre è il corsaro Ciafut, detto il Giudeo di Smirne, ch’io stesso ebbi il piacere di spedire all’inferno. E avrei fatto altrettanto con il figlio, giuro su Dio, se non fosse stato per quella maledetta tempesta!». «La tromba marina di cinque notti fa?», esclamò il monaco, basito. «Oh, pietà divina! L’abbiamo vista sin da qui, io e i miei confratelli. E abbiamo pure visto delle navi sballottate dalla procella, e udito boati di cannoni...». «Era la mia flotta», confermò il Doria. «Si stava scontrando contro quella di Khayr al-Dīn Barbarossa». «Il corsaro turco di Costantinopoli?». L’Appiani annuì. «Sinan è suo alleato», riprese. «Comprendete ora?» «No, non capisco...», rispose il religioso in un crescendo di paura. «Perché mai sareste giunto fin qui... in questo luogo sacro?» «Per verificare che quel bastardo non vi abbia trovato rifugio», gli rispose secco. «Stiamo battendo le isole dell’arcipelago alla sua ricerca e...». «Ma qui non c’è nessuno, solo anime penitenti!». «Allora come mai non ci avete ancora fatto entrare?». Così dicendo, Jacopo V Appiani fece cenno agli uomini d’avanzare. Ma solo dopo che Giannettino Doria ebbe reiterato l’ordine, una coppia di archibugieri scattò in avanti, mandò il monaco gambe all’aria e irruppe all’interno, occupando la navata. Il principe di Piombino e il capitano del mare giunsero subito dopo con il resto dell’assembramento, le spade già sguainate. Ma prima che i loro occhi potessero adattarsi alla semioscurità, udirono uno sparo provenire dalla sacrestia. «Vostre eccellenze!», rimbombò una voce ardita, mentre un soldato genovese stramazzava a terra con la testa spappolata. «Dunque cercate ancora sangue!». 


31/07/2016