Il mio Medioevo: ritmo, simboli e visioni mistiche


Intervista a cura di Roberta Scorranese
Fonte: Sette - Il corriere della sera

Il titolo ammiccante (L`abbazia dei cento inganni), la fascetta editoriale («L`autore italiano di thriller storici n°1 in Italia e più letto nel mondo»), persino i colori della copertina (una misteriosa cassapanca polverosa su sfondo nerissimo): tutto, nel nuovo romanzo (uscito il 23 giugno) congiura nel presentare Marcello Simoni come un best seller del thriller storico più scontato, come una di quelle macchine da romanzo alla Dan Brown – per carità, a tratti divertenti, ma alla lunga piatte, tediose. Poi si comincia a leggere il libro. Si va avanti. E niente è come sembra. A cominciare proprio dal Medioevo raccontato da questo 43enne di Comacchio, archeologo ed ex bibliotecario («Sono anni ormai che vivo solo dei miei romanzi»), autore prolifico di opere per la Newton Compton e appassionato di storia, videogiochi, cinema e Salgari. Non aspettatevi il delitto fine a se stesso, non quella contrapposizione quasi calcistica tra "chierici e laici" che fa tanto romanzo storico e nemmeno troppo sangue, in una truculenza gratuita, tanto di moda. No, Simoni compie un`operazione rara e azzardata: forte di un linguaggio chiaro e suggestivo, trascende la vicenda, approfondisce, si mette nella testa dei cavalieri, delle dame e degli abati che popolarono il Medioevo italiano e francese («Sono diversi perché ogni Paese ebbe il suo, non fidatevi di chi li appaia senza distinzioni»).
Prova a entrare nel loro linguaggio, nelle loro convinzioni. E, soprattutto, nelle loro visioni.

Cominciamo da qui. L`abbazia dei cento inganni è un piccolo catalogo di visioni mistiche, molto importanti nella cultura medioevale e ancora oggi non del tutto chiare agli specialisti.
«La gente, all`epoca, aveva continuamente le visioni. Dai cavalieri alle donne, fino ai religiosi. E c'era anche il somnium, quello stato di assenza temporanea che, per

esempio, ritroviamo nell'episodio biblico della creazione di Eva: «Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull`uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto». Visioni, sonno, assenza presente. Tutto questo faceva parte di quell'epoca, fatta di fede e valori alti, come l'onore».

Valori cavallereschi. E il romanzo parte da un cavaliere, Maynard de Rocheblanche, custode del grande mistero della cristianità: la leggendaria reliquia attribuita a Gesù, il Lapis odili (cosa che, per inciso, lo rende pericoloso e dunque braccato).
«Entrare nella testa dei cavalieri dell`epoca è una delle prove più difficili ma affascinanti. Vedevano il mondo in maniera completamente diversa dalla nostra: per loro era fatto di simboli, gerarchie, credenze. Poi, intorno al XVII secolo, arrivò il Cogito ergo sum e le cose cambiarono».

Ma i valori per i quali un cavaliere era pronto a morire erano principi indiscutibili. Quanto è difficile descrivere caratteri simili? 
«Quando mi è capitato di parlare dei Templari ho cercato di restituire una delle loro peculiarità più complesse da capire, secondo me, oggi: quell`ordine monastico era non tanto dissimile a quello di altri religiosi, con la differenza che, nella difesa della Terra Santa, uccidevano, soffrivano, vedevano morire e poi dovevano tornare in patria e ricominciare da capo, prendersi cura degli altri, essere caritatevoli. Un esercizio fisico e psicologico che pesa nella costruzione di un carattere. Maynard, per esempio, privato dell`appoggio dell`abate di Pomposa, potrà fare affidamento solo sulla sorella, la monaca Eudeline, per difendere se stesso e i propri amici. Un uomo solo, ma forte».

Quanti personaggi sono racchiusi in Maynard?
«Tantissimi. Da Ivanhoe ai Tre Moschettieri, ma c`è anche San Giorgio: non ci pensiamo mai, però nei santi c`è tanta nar- rativa. E molti di loro sono stati dei grandi cavalieri, capaci di battersi e di morire per un`idea».

Il romanzo ruota attorno all`abbazia di Pomposa. Perché?
«Perché l`abbazia in provincia di Ferrara è l`unica dove sia stata riprodotta integralmente l`Apocalisse, con gli affreschi che ne rivestono l`interno. Ancora i simboli: per le persone vissute durante il Medioevo erano molto più che enigmistica. Erano linguaggio usuale, ordinario, è questa la cosa più affascinante. Nel romanzo, per esempio, i simboli guidano la storia, che è anche un giallo, certo, però le immagini simboliche sono disseminate in modo da costituire, da sole, una storia».

La sua scrittura pare nata dalla grande saggistica sul Medioevo, da Baltrusaitis a Le Goff, a Pastoureau. Verrebbe da pensare che lei si sia avvicinato alla narrativa passando dal metodo storico.
«Vero, ma in parte. Ho unito la grande passione per questi saggisti con un amore viscerale per Salgari, Dumas e per Conan 
Doyle. Un romanzo storico va sì, documentato, ma soprattutto va raccontato bene. Credo che sia questo il difetto di molti autori italiani che si cimentano con questo genere: sembrano intimoriti dal peso della storia. E così quando li leggi pare che abbiano il freno tirato. Ma guardiamo a un grande della nostra letteratura, purtroppo mancato di recente, Umberto Eco: ne Il nome della rosa il Medioevo è fantastico, certo, ma se ne sente l`odore, il sapore, se ne avverte la sensibilità. È questo il connubio che ricerco, sempre tenendo presente che una buona storia deve saper divertire».

Quanto tempo dedica ogni giorno alla scrittura?
«Dalle sei alle otto ore al giorno, dipende dal romanzo che ho in testa. Ma faccio anche altro: guardo film, gioco ai videogames, leggo altri autori diversi dal mio genere, come Fred Vargas o Joe Lansdale. Non leggo `alli storici, però: mi bastano le storie da raccontare».

 


08/07/2016