Il mestiere del giallista, di Marcello Simoni


Ogni qual volta mi si chiede di descrivere la mia bottega di giallista storico, il pensiero va ai precetti vergati seicento anni fa dal pittore senese Cennino Cennini, nel suo Libro dell’arte, in merito ai principi della pittura: «conviene avere fantasia e hoperazione di mano, di trovare cose non vedute chacciandosi sotto ombra di naturali, e fermarle con la mano, dando a dimostrare quello che nonne sia».

 

Se infatti la maggior parte dei narratori impostano le loro trame basandosi sulle parole, io parto dalle immagini. Da piccoli schizzi in inchiostro di china, per la precisione. È stato così fin dalla nascita di Ignazio da Toledo, l’enigmatico mercante di reliquie che, dopo sette anni di assenza, ritorna nel mio ultimo medieval thriller. Ricordo che il suo nome mi balenò nella mente tra gli scaffali di una biblioteca, ma prima di iniziare a scrivere di lui ne abbozzai i lineamenti su un pezzo di carta, per capire in quale modo la sua espressione meditabonda emergesse al baluginare di un fuoco durante una notte senza luna. Fu un “imprinting” molto simile a quello incorso a Stevenson quando, dipingendo per gioco la topografia immaginaria dell’Isola del Tesoro, creò il luogo mentale in cui avrebbe ambientato il romanzo di pirati più bello che la letteratura avventurosa abbia mai conosciuto.

Del resto sussiste un legame antico, quasi archetipico, tra immagini e parole. Basti pensare al «Beati gli occhi che vedono» di Luca evangelista, identificato dalla tradizione medievale con il primo iconografo di Gesù e di Maria; o a quel frate Enrico Pisano che nel XIII-XIV secolo, secondo la Cronaca di Salimbene da Parma, «sciebat scribere et miniare»; per non parlare della naturalezza con cui Leonardo da Vinci, nei suoi appunti, accostava disegni a frasi stese in volgare.

Da lì al Corto Maltese di Hugo Pratt e alle storie illustrate di Neil Gaiman, il passo è breve, al punto da permetterci di accostare lo storytelling al dimostrare quello che nonne sia del Cennini, cioè il saper plasmare mondi dal nulla in virtù della stessa onnipotenza creativa del miniaturista o del poeta che, come si legge nel Libro dell’arte, è «llibero di potere comporre e llegare insieme sì e nno come gli piace, secondo suo volontà».

Ma senza trasgredire alle regole della verosimiglianza.

Se dovessimo paragonare il romanzo storico a una tela da dipingere, la Storia diverrebbe la prospettiva attraverso la quale dare tridimensionalità alla nostra illusione narrativa. L’uomo del Medioevo, in altre parole, vive in una realtà diversa dalla nostra, non solo per quanto riguarda la cultura materiale e gli eventi politico-bellico-religiosi che fanno da sfondo alla sua esistenza, ma anche per la sua forma mentis: che si decida di calarci nei panni di un dotto mercante di reliquie, di un tracotante feudatario o di un tintore di stoffe fiorentino, dovremo avere ben presente il loro modo di ragionare, di leggere il mondo, di interpretare la realtà che li circonda.

Questo processo di immedesimazione tende a risultare tanto più efficace quanto più si è padroni dell’epoca che intendiamo descrivere. Ma lo studio delle fonti non basta. Come raccomanda il Cennini per la buona riuscita di un’opera pittorica, infatti, è necessario ricorrere a qualcosa che non ci può essere insegnato in nessun corso di scrittura creativa: la fantasia.

Il romanzo storico, in sostanza, non è dissimile dall’archeologia sperimentale, ossia la scienza che si sforza di colmare i vuoti della storia laddove i reperti e i documenti archivistici si rivelano manchevoli. È in queste occasioni che la fantasia, per chi ne sa fare buon uso, agisce come un ago che rammenda le lacune di un ordito rimasto a metà, aggiunge brandelli di testo a un palindromo rovinato dal tempo, erige abbazie scomparse in luoghi dove oggi sorgono agri, piazze o zone inselvatichite.

L’esempio più calzante sono le pennellate verbali con cui Walter Scott riporta in vita, fra le pagine di Ivanhoe, il fuorilegge Robin di Locksley celebrato da una nebbiosa tradizione popolare e, si sospetta, vissuto in carne e ossa nelle foreste inglesi nel tardo Medioevo. Ma pensiamo anche al ritratto teatrale di Cyrano de Bergerac offerto da Rostand, o a quel che fece Dumas, pescando dalle settecentesche Mémoires de M. d’Artagnan di Sandras, affrescando intorno alla figura di nobile guascone vissuto realmente un’impareggiabile serie di romanzi d’appendice.

Ma se il disegno – la visualizzazione dell’invisibile – si è rivelato uno strumento cruciale per i miei giochi narrativi, ho dovuto altresì dotare la mia bottega di un oggetto familiare alla musica: il metronomo. Per rappresentare delitti, intrighi e scene rocambolesche, non bastano infatti i chiaroscuri di un affresco. Serve saper dosare i tempi della trama, che deve essere in grado di rallentare, quasi dilatandosi, per poi accelerare all’improvviso, al pari di una toccata e fuga o, se preferiamo, di un assolo di chitarra elettrica.

Il “solfeggio della narrazione” e la scelta di frasi brevi, pesate con la bilancia, insieme all’arte di stendere dialoghi asciutti secondo un ritmo quasi metrico, sono indispensabili a buttare giù pagine che si bevono come un sorso d’acqua.

Perché la lettura non deve mai annoiare. Proprio come la scrittura, che andrebbe eseguita nello stesso modo in cui nel Medioevo si lavorava agli affreschi: con velocità, prima dell’asciugarsi dell’intonaco. E fuori di metafora, dell’irrigidirsi delle idee.

Marcello Simoni su «La Repubblica»


21/07/2020

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