I segreti del quadro più amato dal Papa


La scrittrice Alex Connor riflette sul misterioso potere dell'arte di mettere in collegamento uomini diversi a distanza di secoli

Fin da quando era cardinale, Francesco ha mostrato una predilezione per las vocazione di San Matteo di Caravaggio.
«Il dipinto racconta come Gesù riuscisse a vedere il bene anche nei peccatori. Un atteggiamento che il pontefice incarna quotidianamente nella sua azione.»


di Alex Connor

Ho letto che il quadro di Caravaggio preferito di papa Francesco è la Vocazione di San Matteo e sono rimasta molto colpita. Matteo era disprezzato dal popolo di Israele perché faceva l’esattore delle tasse per conto dei Romani e il dipinto mostra proprio il momento in cui Gesù lo invita a seguirlo: “Lo guardò con sentimento d’amore e lo scelse”. Quando il papa era ancora soltanto il cardinal Bergoglio, andava spesso a visitare la chiesa di San Luigi dei Francesi per ammirare la tela, poi, una volta pontefice, ne ha commissionato una copia che ora è appesa al Vaticano, a Casa Santa Marta, dove Francesco celebra ogni mattina la messa. E questo cosa ci rivela? La straordinaria capacità di mettere in comunicazione che possiede l’arte. In questo specifico caso, la capacità di creare una connessione tra due uomini del tutto diversi, a distanza di secoli. 
Affermare che l’arte è un’arma potente è abbastanza scontato. Serve a educare, stuzzicare, ispirare. Le opere d’arte sono state contraffatte, rubate, commerciate… per procurarsene una in molti hanno peccato di avarizia, qualcuno ha persino ucciso. Re, duchi e dogi le hanno collezionate per dimostrare le proprie credenziali artistiche. Elisabetta I ha fatto affidamento sugli artisti per offrire una versione edulcorata di una monarchia rigida e vetusta, immortalata in un’immagine pura ed eterna come una carta da gioco. Carlo II di Spagna si è fatto ritrarre da Velásquez per apparire più regale. Ma persino un artista del suo calibro ha fallito, attirando l’attenzione sulla mascella asburgica, frutto di prolungati incesti. 

In ogni caso, era necessario che la popolazione vedesse i regnati come sovrani magnifici e l’arte aveva appunto il compito di avvolgerli in quest’aura di regalità. E il pennello non è meno letale del calamaio quando si tratta di rappresentare una potenziale sposa. Fu infatti un ritratto di Anna di Clèves a spingere Enrico VIII a invitarla in Inghilterra. Ma una volta che dovette affrontare la realtà, il re si rifiutò di consumare il matrimonio e cominciò a riferirsi a lei definendola “la giumenta delle Fiandre”. 
Fin qui abbiamo considerato l’arte come arma politica, tuttavia per molti secoli è stata anche un’arma religiosa. Nel Medioevo, quando erano in pochi a saper leggere e scrivere, la chiesa chiedeva agli artisti di raffigurare inferno e paradiso. Il motivo è ovvio: così i peccatori avrebbero potuto vedere quali erano le pene che toccavano ad assassini, fornicatori e blasfemi. Bosch fu uno dei più grandi esponenti di questo filone di artisti dediti in maniera non troppo velata alle “pubbliche relazioni”. Il suo Paradiso è dolce, a tinte pastello, caritatevole. Il suo Inferno invece è popolato da chimere e creature deformi, impegnati in ogni forma di sadica tortura. Qualche decennio dopo lo stesso compito venne affidato in Italia a Michelangelo. Il suo Giudizio universale è un’opera viscerale. Adesso lo ammiriamo nelle sue riproduzioni patinate, ma immaginate come doveva essere un tempo, illuminato solo dall’esitante luce delle candele: un’incombente massa di facce che urlano e di figure che precipitano, che avrebbe terrorizzato qualsiasi spettatore. 

Lentamente i tempi sono cambiati, la morale si è rilassata e la gente ha iniziato a cercare sollievo dal giogo della divinità: l’arte è così diventata arma di seduzione. Le donne di Correggio, i gloriosi soffitti del Tiepolo, i concerti pastorali di Watteau, la morbida sensualità di Giorgione, hanno trovato piena espressione nel voluttuoso Tiziano. La vita era bellezza, la bellezza era arte. Persino i pii mercanti olandesi non ne restarono immuni. Il denaro che si procuravano grazie ai loro traffici pretendeva un riconoscimento. Non un nudo italianizzante, piuttosto un’indulgente natura morta. Ma questi memento mori non svolgevano il compito di ricordarci della precarietà della vita, quanto quello di proclamare la ricchezza del committente. Coppe d’argento, tovaglioli finemente ricamati, tappeti turchi e cornucopie di frutta e prelibatezze che suggerivano allo spettatore: “Guarda tutto quello che possiedo. Guarda quanto successo che ho”. 
 
E poi l’arte divenne anche un’arma di guerra. Tele come moneta di scambio, intere collezioni saccheggiate, dipinti e sculture rubati dai tiranni. Adolf Hitler – il malvagio imbrattatele rifiutato dall’accademia artistica – taccheggiò tutta Europa, mentre la conquistava. La Natività dei santi Lorenzo e Francesco d’Assisi di Caravaggio è finita nelle mani della Mafia e molti altri ladri di opere d’arte – gente del calibro di Joseph Goebbels, Manuel Noriega e Sadam Hussein – ha ampiamente saccheggiato la cultura. Durante la Primavera araba il Medio Oriente è stato depredato di molti dei propri tesori: l’incertezza dei confini e le guerre hanno reso le ruberie una vera pandemia. Nelle ultime due decadi la questione ha preso una piega ancor più sordida e pericoloso: i crimini d’arte sono diventati più redditizi persino della prostituzione e del traffico di droga. 
Ho cominciato dicendo che l’arte è l’arma più bella che l’uomo abbia a disposizione, e continuo a crederlo. Nonostante tutti i crimini, la violenza e l’avidità che ha ispirato, la bellezza ha dimostrato di avere un altro, straordinario potere. È l’arma della Redenzione. Il che ci riporta alla Vocazione di san Matteo, il quadro preferito del papa. Caravaggio era un realista; dipingeva quel che vedeva, i bassifondi, le prostitute e gli ubriaconi e, pur non essendo un tipo devoto, la sua arte offre l’atavica speranza d’assoluzione. Nella grande arte religiosa c’è sempre la brama della fede. Entrambe da esprimere e sperimentare. Matteo era un peccatore, ma Gesù Cristo ha visto in lui il bene. Caravaggio era un assassino, ma tendeva alla luce. I suoi dipinti fremono di lampi luminosi, la minaccia delle tenebre è stata distrutta. Caravaggio è un becchino dell’arte, ma la sua opera offre sempre una via di fuga, la divina luce della Redenzione. 

I brav’uomini conoscono le tenebre, le hanno sperimentate, affrontate e conquistate, facendo sì che la luce trionfasse. In qualità di rappresentante di Dio in Terra, il papa ripete quotidianamente l’azione di Cristo nella Vocazione di san Matteo, offrendo fede e perdono, come Gesù offrì la mano all’esattore delle tasse. “Lo guardò con sentimento d’amore e lo scelse”. La promessa dell’amore cristiano è quella di accettare il peccatore, l’uomo e la donna che vivono nelle tenebre. Caravaggio li ha dipinti e li ha amati, usando i propri dipinti come segnali stradali per il mondo della luce. E adesso, secoli dopo, il papa e il pittore condividono la stessa arma di Redenzione: l’artista dei bassifondi e il pontefice in Vaticano, uniti nella luce a cui tutti aspiriamo. 
 
Traduzione di Clara Serretta
Fonte: Famiglia Cristiana 04/10/2018

 


04/10/2018

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