I Lupi vanno a caccia di cadaveri in laguna nella Venezia nera di Tintoretto


Omicidi e misteri coinvolgono cortigiane e spie, fra i bassifondi dei bottegai e gli ori dei palazzi nobiliari

Di Marcello Simoni

Venezia. In giorni durante i quali la furia dell'acqua viene a rammentarci in quanto poco conto teniamo le nostre città più preziose, e di quanta trascuratezza circondiamo i tesori dell'umanità e la sicurezza delle stesse umane vite, pare quasi d'obbligo parlare di Venezia. Perché dunque non farlo con un romanzo capace di lasciarci intravedere la Serenissima attraverso la fiamma color pergamena dei secoli andati? Con I lupi di Venezia Alex Connor ci conduce nel cuore del Cinquecento, muovendo la sua narrazione lungo i canali della città lagunare quasi fosse una gondola d'un nero lucente, alla scoperta di un mondo di palazzi sfarzosi, letti intagliati, gioielli d'ogni tipo e broccati ricamati con fili d'oro e d'argento. Per poi scendere nell'abisso, fra i giocatori d'azzardo, gli assassini e il ghetto del sestiere di Cannaregio, fra vite e sogni che si nutrono di niente. Trapela una sensibilità particolare dalla narrativa della Connor, un'ottica personalissima, quasi voluttuosa, con cui l'autrice britannica ci mostra sfarzi e orrori di un'epoca dorata aprendo una sorta di portagioie che luccica d'arte e di dramma operistico. Ed è con questo afflato che la storia ha inizio, avvolgendosi come un drappo funereo intorno al cadavere di una donna ripescata dalle lagune con gli arti mozzati. Una figura senza forma né grazia sdraiata sul catafalco di un teatro anatomico. A guardarla non è un uomo comune, bensì Tintoretto, al secolo Jacopo Robusti, pittore di enorme talento ma dai modi rozzi, intento a farsi strada nella complicata Venezia insieme a diversi altri personaggi che scivolano nel romanzo al pari di ombre impalpabili, ma capaci di graffiare. Intorno al mistero ruotano infatti l'astuta cortigiana Tita Boldini, la spia Admo Battista dall'abbigliamento corvino e soprattutto l'intrigante figura di Pietro Aretino, «ciarlatano, confidente di Tiziano, puttaniere, pornografo e uomo di lettere, conosciuto in tutta Europa come "il flagello dei principi"». Vicinissimo alla corte di papa Leone X e all'entourage del cardinale Giulio de' Medici, l'Aretino è nel pieno del suo trentennio veneziano e, sotto le pennellate della Connor, ci compare ripugnante tanto nelle maniere quanto nell'aspetto porcino, quasi a volerci rammentare l'importanza dei personaggi equivoci all'interno della fiction. Specie in un thriller. Un thriller che, in questo caso, si muove ai tempi di un adagio sostenuto, quasi trionfale, portato dal vento gelido dell'Adriatico e da un'attenzione maniacale per tutto ciò su cui un occhio d'artista non potrebbe mai sorvolare. Dai clavicembali laccati all'esotico orientale, come i kimono giapponesi già ricercati dalle capricciose cortigiane veneziane. Nulla è lasciato al caso, giacché è proprio negli interstizi di questo mondo all'apparenza frivolo, costruito sull'apparenza e sui falsi sorrisi, che ci viene sussurrata la lezione più importante sul talento, che dovrebbe essere distillato alla guisa di un olio prezioso. E la lezione ancora più importante della spietatezza, personificata da un gruppo di sfuggenti individui chiamati i Lupi. Due, o forse quattro uomini di immensa pericolosità, che come arma più affilata usano i sussurri. «Uomini che arrivano con la marea per nutrirsi di carogne». È proprio per volere di individui del genere che si intrecciano, al pari delle traiettorie delle pedine degli scacchi, i destini di due personaggi diversissimi tra loro, il ricco Marco Gianetti, assistente del Tintoretto, e il medico ebreo Ira Tabat, satelliti attratti dall'orbita di ombrosi pianeti. Mentre un'altra figura, l'olandese Barent Der Witt, col suo cappello a tese larghe e un «uovo di Norimberga» (uno dei primi orologi da tasca della storia), va alla ricerca della verità, forse per desiderio di espiazione, forse per dare la caccia a un segreto. Ma come già si sarà compreso, il vero protagonista è la trama. Solida, magmatica, molteplice. Alla faccia di chi dice che il romanzo storico è in fase calante perché non avrebbe più niente da raccontare. Invece la Storia, pare suggerire Alex Connor tra un capitolo e l'altro, si compone di quella coralità di infinite voci tra le quali è possibile ricamare storie più piccole, ma altrettanto importanti, mediante le quali è possibile dimostrare che gli essere umani di ogni epoca sono fratelli. Anzi, sono chiavi di volta in grado di farci cogliere la sinfonia delle sfere celesti che racchiudono i destini del mondo, con tutti i loro misteri, i loro orrori e la loro conturbante, romanzesca bellezza.

Fonte: TTL 30/11/2019


30/11/2019

Scarica file PDF allegato