Genitori vi spiego perché i tablet fanno bene ai vostri figli


I videogiochi come strumenti per l'apprendimento, il computer usato anche in classe e nessun limite di tempo allo smartphone. L'esperto di nuove tecnologie Jordan Shapiro ha scritto un bestseller controcorrente per educare i ragazzi oggi. E ora che il suo libro esce in Italia, l'autore spiega a Grazia la sua filosofia per l'era digitale

di Monica Bogì tardi 


«Hai giocato con lo smartphone per un'ora. Adesso tempo è scaduto. Leggi un libro». Quante volte abbiamo parlato così ai nostri figli, credendo di difenderli da un nemico che li abbrutisce, lo smartphone appunto? Ecco, queste frasi, che contrappongono la vita reale a quella digitale, sono l'emblema di ciò che non va fatto se vogliamo impartire ai nostri ragazzi quell'educazione tecnologica che può farne dei professionisti qualificati e dei bravi cittadini. Questo e altro, da quando iniziare a usare i social a come servirsi dei supporti digitali a scuola, viene spiegato da Jordan Shapiro, uno dei più importanti esperti americani di competenze digitali e tecnologia, nel libro in uscita in questi giorni // metodo per crescere i bambini in un mondo digitale (Newton Compton). Shapiro espone le basi del suo metodo che ha fatto discutere perché è molto permissivo con la tecnologia.

In che modo i videogiochi sono utili strumenti educativi?
«Hanno tutti gli elementi pedagogici che servono nell'età della crescita. Sono sfidanti e coinvolgenti, forniscono riscontri chiari e costanti. Il fatto che presuppongano una distinzione tra il giocatore e il suo personaggio incoraggia la riflessione su come imparare a imparare. Inoltre, premiano l'esperienza».

Quali sotto i videogiochi più educativi?
«I più famosi sono pensati per l'intrattenimento, insegnano non necessariamente materie scolastiche. Eppure è attraverso il gioco che i bambini sviluppano alcune abilità e apprendono ad auto-regolarsi. Se poi si esercitano in gruppo, fanno pratica nel gestire le relazioni mediate da un canale digitale. I videogiochi danno un'abilità indispensabile per chiunque voglia una vita realizzata, ed etica, nel terzo millennio. Alcuni sono progettati per insegnare materie dei programmi didattici: per esempio la serie di giochi e app DragonBox. Oppure Wuzzit Trouble, che è basato sulla matematica».

Perché non va messo un limite nell'uso dei videogiochi?
«L'idea di limite di tempo, quando si parla di schermi, è semplicistica. Nel nostro mondo interconnesso non si può più fare a meno degli apparecchi digitali. La questione è: in quali attività sono impegnati i piccoli allo schermo? Attività passive, come guardare un video dietro l'altro, o attive e creative, come in un gioco di avventure? L'idea che ci sia una quantità di tempo universalmente giusta, o sbagliata, da dedicare ai videogiochi è assurda. Dipende tutto dal bambino. Uno dei miei figli, a volte, gioca per ore. Ma legge anche uno o due libri alla settimana, trascorre molto tempo con gli amici e corre con la bicicletta. Perché dargli un limite, se fa pure altre attività che ritengo importanti?».

Lei incoraggia igenitori: li invita a lasciarsi coinvolgere dai videogiochi dei figli.
«Ritengo sia utilissimo. Giocare con i ragazzi serve: insegni loro a estrapolare un significato da un determinato contenuto e mostri che ti importa delle occupazioni a cui tengono, che sono le attività attraverso cui formano la loro identità. Porre limiti di tempo, invece, sottintende che il mondo digitale sia un posto brutto e proibito, che va controllato e che non è in linea con le regole etiche che gli adulti promuovono. Dobbiamo piuttosto assicurarci che la prossima generazione sappia integrare moralità e sensibilità per gli altri in un mondo interconnesso».

L'educazione tecnologica, pee lei, è utile anche perché abitua al "drip engagement", il "coinvolgimento a goccia", cioè quelle attività che non richiedono alle persone coinvolte di interagire contemporaneamente. Di che cosa si tratta?
«Indica un nuovo modo di relazionarsi con l'apprendimento. Nel nostro mondo interconnesso tante attività sono asincrone, cioè avvengono in modo spezzettato e discontinuo nel tempo. Nella vita professionale, per esempio, uno scambio di email tra colleghi può durare anche tre giorni, con ripetuti botta e risposta, pur riguardando un solo argomento. Come insegnare ai nostri  figli a muoversi in un contesto simile? L'attuale sistema educativo promuove l'attenzione concentrata su un fatto, in un momento definito, ma il lavoro non è più scandito da conferenze programmate e telefonate».

Lei consiglia di aprire un prof ilo social ai bambini ancor prima che lo chiedano. Ma non è un precorrere i tempi?
«I ragazzi vogliono un profilo personale quando diventano adolescenti, nel momento in cui è probabile che inizino a ribellarsi ai genitori. Sarebbe meglio insegnare loro ad avere un buon comportamento in Rete mentre ancora vogliono emulare gli adulti, quando sono più propensi a seguire le regole suggerite dai genitori, e non a infrangerle. Insomma, prima che gli ormoni della pubertà abbiano il sopravvento».

Quali social media sono più adatti ai bambini?
«Non importa, bisogna scegliere una piattaforma digitale in cui i genitori possano interagire con i figli. E poi gli adulti devono sapere quali sono le norme per la privacy, per tutelare i ragazzi».

Lei scrive che a scuola si devono prendere appunti su computer e tablet e non più sulla carta. Ma così, si potrebbe obiettare, eliminiamo la scrittura tradizionale dai banchi.
«Creare dicotomie tra carta e schermo è miope. Bisogna piuttosto insegnare ai bambini a usare i supporti più idonei e adatti alla situazione: a volte quelli digitali, in altri casi la carta e la penna. Io uso la stilografica, se desidero scrivere lentamente, dandomi il tempo di riflettere. Se, invece, devo prendere appunti veloci, metterli in relazione tra loro e poi consultarli, preferisco il computer».

Lei parla di "ospitalità digitale": la capacità di relazionarsi con gli altri nei nuovi media senza aggredire o sentasi minacciati. Come si insegna?
«L'umanità è sempre più connessa. Ma la gente non è preparata ai nuovi media. Siamo sempre più facilmente esposti a idee e culture molto lontane dalle nostre, che contraddicono il nostro concetto di mondo. E questo genera, a volte, paura, rabbia, conflitti. Essere ospitali significa accogliere gli altri restando ancorati a noi stessi. Ecco perché l'ospitalità digitale è necessaria: i genitori devono insegnare ai figli a interagire senza perdere la propria identità ma, al contrario, per arricchirla».

Lei dice che oggi la conoscenza si costruisce in modo sociale. La scuola è pronta per questa sfida?
«Non ancora. Il sistema educativo è pensato per funzionare in presenza di alcune limitazioni tecnologiche. Per esempio, il sistema di archiviazione dei dati è ancora i parte cartaceo e i ragazzi vengono divisi in classi. Ma oggi la tecnologia offre nuove sfide, sia all'amministrazione scolastica sia alla pedagogia. Se la scuola vuole continuare a funzionare, deve adattarsi ai tempi».

Fonte: Grazia 07/03/2019


07/03/2019

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