FIGHT CLUB ITALIA: POCHI SOLDI MOLTO SANGUE


Di Massimo Lugli

Dalla pineta di Ostia ai capannoni dell'hinterland milanese, viaggio nel mondo degli incontri clandestini. Dove non esiste alcuna regola. Se non quella di non parlarne mai.

Roma. Due uomini che si affrontano in una lotta selvaggia a pugni, calci, leve articolari, colpi sferrati con la testa, i gomiti, le ginocchia. Un cerchio di spettatori urlanti. Banconote che passano di mano. Vedette appostate nei dintorni nel caso arrivino polizia o carabinieri, pronte a lanciare l'allarme e scatenare il fuggi fuggi generale. Insomma, cambiamo qualche dettaglio e siamo in pieno Figth Club anche se raramente i combattenti hanno i lineamenti intatti e il fascino da monellaccio di Brad Pitt.

Pugili in disarmo, esperti di arti marziali, wrestler senza fortuna ma soprattutto combattenti delle mille versioni legali di free fight scendono in campo in questi scontri senza arbitro e senza regole dalla periferia di Palermo ai capannoni abbandonati del Napoletano, dalla pineta di Ostia all'hinterland milanese. Fenomeno sottostimato e sottovalutato, molto più frequente nelle regioni del Centrosud rispetto al settentrione, quello dei combattimenti illegali tra uomini e un evergreen nel mondo variegato e sfuggente delle gare clandestine tra macchine, moto e cavalli o dell'orrore degli scontri tra cani, cani e cinghiali e perfino, qualche volta, tra una muta di cani e un orso. Uomo contro uomo, senza badare a categorie di peso o tecnica di lotta, vince chi resta in piedi o costringe l'altro alla resa. Gli ingaggi non sono certo da capogiro: il perdente incassa dai mille ai 1.500 euro, a seconda del curriculm che ha alle spalle, e la borsa di chi vince supera raramente i 2.000. Le puntate oscillano tra i 200 e i 400 euro a incontro e, in sostanza, gli scenari di lusso di tanti film americani, almeno da noi, non esistono. Ci si batte per mettersi alla prova, per ferocia, per il gusto del sangue più che per soldi.

«Io ho provato una volta e ho smesso subito», racconta Bruno, 37 anni, romano del Laurentino 38, ex peso welter di buone prospettive, una carriera di pugile dilettante stroncata, racconta lui, da un infortunio alla mano (che non gli ha impedito però di battersi a pugni nudi). «Ne avevo sentito parlare da un amico e quando mi ha proposto di combattere mi sono detto: perché no? Tutto sommato è stata una faccenda abbastanza squallida: mi hanno fatto salire su un'auto con due romeni, siamo andati a Ostia, abbiamo cambiato macchina e siamo arrivati in pineta. C’erano una ventina di persone a fare da pubblico. Il mio avversario era un macedone pieno di tatuaggi che sembrava proprio tosto. All'ultimo momento mi hanno detto che faceva thai boxe e dovevo stare attento ai calci e alle gomitate. Ci siamo studiati un po', ho accorciato la distanza, gli ho mollato destro-sinistro dritti in faccia e l'ho steso. Fine della storia. È stata la prima e ultima volta».

A differenza dei combattimenti tra animali, quelli tra uomini non vengono monitorati dagli ambientalisti né controllati stabilmente dalle forze dell'ordine, anche perché si tratta di giri molto chiusi. Intervenire durante i match è quasi impossibile, e se qualcuno si fa male sul serio al Pronto soccorso, racconta la favoletta di un incidente stradale o di un'aggressione per rapina. I medici, quasi sempre, fanno finta di crederci. Nessuna statistica del ministero: arresti e denunce si contano sulle dita di una mano.

Negli anni 60, Enzo Pulcrano, pugile e attore romano che andò al tappeto dopo un memorabile match con l'avversario di sempre, Giovanni Zampieri, ammise a mezza bocca di aver partecipato a qualche incontro illegale. Ma si trattava essenzialmente di boxe fuori dal ring, con guantoni, arbitro e le stesse regole dei quadrati ufficiali. I combattimenti clandestini sono tutta un'altra storia.

Una storia che ha una lunga tradizione alle spalle e una concorrenza invincibile nella sigla Ufc, Ultimate fighting championship, versione sportiva che continua ad andare forte in moltissimi Paesi, dagli Stati Uniti agli Emirati passando per Giappone, Russia e mezza Europa. L'idea, in realtà, nacque in Brasile dove Hélio e Carlos Gracie, praticanti di una versione carioca del ju jutsu (secondo la leggenda l'avrebbero imparato da un nobile fuggito dal Giappone), gli diedero un nome che era tutto un programma: Vale Tudo. Il concetto era semplice: vediamo chi mena sul serio e quale tecnica funziona meglio in uno scontro in cui è vietato solo mordere e cavare gli occhi. Karateka, esperti di judo, lotta, kung fu, silat indonesiano e tutte le discipline marziali del mondo scesero nell'arena (a volte un ottagono, a volte una gabbia, a volte il classico ring da pugilato) e impararono presto la lezione: nessuna disciplina è più efficace delle altre, conta solo l'atleta. Nacquero così le MMA (Mixed Martial Arts), cocktail di grappling, dose quarter combat, pugilato e boxe tailandese che, oggi, è diventato uno sport in piena regola, addolcito spesso da qualche regola che serve soprattutto a renderlo più spettacolare. Le scommesse, quando ci sono, scorrono su un terreno legale e gli incidenti gravi, tra l'altro, sono meno frequenti che nella boxe occidentale classica.

Fuori dal circuito restano gli happeninginsalsacalifomiana dei Dog Brothers, praticanti di escrima filippina che, in grandi raduni conditi di musica e di birra, si affrontano a contatto pieno con i bastoni di rattan in pugno. Nessuna tecnica è vietata: botte da orbi. Alcuni marzialisti italiani, tra cui un medico romano abbastanza noto, sono partiti per partecipare con lo spirito con cui si va alla maratona di New York. Ma stiamo parlando, sempre e comunque, di sfide che rientrano nell'area della legalità. Un mondo di sudore, sangue, sacrificio e pochi spiccioli, come in tutti gli sport minori.

Gli incontri clandestini, invece, coinvolgono soprattutto gli stranieri. Atleti dalla fedina penale con la prolunga o una relazione pericolosa con alcol e droga, oppure semplicemente rissaioli da strada formati a forza di botte, si cimentano in zuffe quasi sempre brevi e cruente sulla falsariga delle felony fight, il pugilato illegale a pugni nudi che continua a furoreggiare negli Usa. Una figura quasi mitologica di questi moderni ludi gladiatori, il lottatore Kevin Ferguson, alias Kimbo Slice, fece il percorso inverso, passò alle MMA con un discreto successo, poi al pugilato e si ritirò imbattuto.

Un'altra variante sono le sfide tra praticanti di arti marziali diverse, spesso nel segreto di una palestra dopo l'orario di chiusura che vengono a volte filmate a uso e consumo dei social. «Qualche tempo fa un mio allievo arrivò in palestra ridotto in condizioni pietose», racconta "sifu" (maestro) Paola De Caro, istruttore capo della scuola Giuncarossa di Wing Tsun, una delle arti marziali cinesi più brutali ed efficaci, inventata da una suora buddista del XVIII secolo. «Ammise di aver partecipato a un incontro clandestino dove lo avevano pestato di brutto. Come insegnante considero un fallimento il solo fatto che abbia voluto provarci. Tentare di riprodurre in una gabbia quello che si impara in palestra è follia suicida, le arti marziali sono un'altra cosa. Quel ragazzo era gonfio di muscoli e arroganza. Non sono riuscita a farlo ragionare e, alla fine, ha lasciato la scuola». Chissà se ha continuato ad allenarsi altrove e, magari, a combattere in qualche radura o in qualche capannone.

Fonte: Il Venerdì 16/02/2018


16/02/2018

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