Corruzioni, clientele, brogli. Le elezioni a Roma duemila anni fa


Andrea Frediani, autore dei bestseller Roma Caput Mundi. L'ultimo pretoriano e La saga degli invincibili, ha scritto un interessante articolo per il Corriere della Sera su una tematica attuale e oggi più che mai d'impatto. Facciamo un salto indietro nel tempo e andiamo a scoprire come avvenivano le elezioni nell'antica Roma.

«Giulio Cesare osserva il Rubicone scorrere placido davanti ai suoi occhi. È solo un fiumiciattolo, ma segna il confine tra il sacro suolo italico, dove non è consentito entrare in armi, e la Gallia Cisalpina.

Eppure il condottiero ha una legione con sé, e intende passarlo, quel confine, pur sapendo che, poi, non potrà più tornare indietro: sarà nemico pubblico e avrà contro di sé l’intera repubblica romana. Ma dopo qualche esitazione lo attraversa, esclamando non la celebre frase in latino «Alea iacta est», ovvero «Il dado è tratto», ma una citazione in greco, «Anerriphtho kybos», ovvero «Il dado sia tratto!», che in latino si tradurrebbe «Alea iacta esto».

Ma perché Cesare voleva varcare in armi il Rubicone? Per tutelare quello che riteneva un suo diritto: presentare personalmente a Roma la propria candidatura al consolato. La legge prevedeva infatti che i candidati a una magistratura dovessero essere presenti nell’Urbe rinunciando a qualunque carica rivestissero al momento. Ma lui era proconsole in Gallia e aveva chiesto al senato che la sua candidatura fosse presa in considerazione «in absentia». I suoi avversari politici, però, avevano rifiutato: Catone, Cicerone e soci non aspettavano altro che di vederlo inerme nell’Urbe, da privato cittadino, senza l’immunità che gli assicurava il proconsolato, per poterlo finalmente processare per le scorrettezze compiute durante il suo consolato di un decennio prima.

Dieci anni: era l’intervallo di tempo che la costituzione romana, allora, prevedeva per un politico tra un consolato e un altro, con mandati annuali, per evitare che un solo uomo gestisse il potere troppo a lungo. Inoltre, era previsto che i consoli fossero due, perché si controbilanciassero a vicenda.

Le cose, in realtà, a quei tempi andavano diversamente e il generale con più legioni il potere se lo andava a prendere con la forza, oppure per acclamazione popolare. In condizioni normali, invece, il candidato – che indossava una toga candida, ovvero di un bianco lindo, da cui il nome – spendeva gran parte del suo patrimonio o si indebitava, per guadagnarsi il consenso necessario all’elezione. Proprio Cesare, da propretore in Spagna, era andato a scatenare una guerra in Portogallo per soddisfare i propri creditori che lo avevano aiutato a conseguire la pretura.

La votazione avveniva in Campo Marzio mediante assemblee, i comizi centuriati, cosi detti perché basati sul sistema delle centurie in cui erano tradizionalmente ripartiti i romani: 193, per l’esattezza, divise in cinque classi di censo.

L’astensione non aveva alcun peso perché ogni centuria produceva un singolo voto; pertanto quelle delle prime due classi, 98 in tutto e formate dai cittadini più benestanti, raggiungevano da sole il quorum. Un sistema, come si vede, concepito per favorire i più ricchi, assicurando magistrati tratti dai ceti più abbienti.

E non si illuda, chi avesse la tentazione di vagheggiare i bei tempi antichi: corruzione, clientele e brogli elettorali, risse da strada per forzare un’elezione, votazioni pilotate, voti di scambio e ogni sorta di nefandezza erano all’ordine del giorno, ben più di adesso…»

Fonte: Corriere della Sera


19/06/2016