Chi giocò col duce e chi l’ha battuto


La guerra in campo
Nel libro di Renato Tavella il controverso rapporto dei grandi calciatori con il fascismo. Da Piero Rava, volontario in Russia, al partigiano Michele Moretti, che sparò a Mussolini.

di Maurizio Crosetti

TORINO. C'è stato un tempo in cui un calciatore poteva essere partigiano o repubblichino, e un allenatore poteva essere deportato in un campo di concentramento e morirvi. Il calcio italiano durante la guerra e il fascismo è un argomento strano e frammentalo: se si sa tutto di Àrpàd Weisz, il tecnico ebreo ungherese morto ad Auschwitz, quasi nulla si sa di Michele Moretti, terzino partigiano che sparò al Duce, e neppure di Mario Pagotto, il difensore del Bologna che fu internato ad Hohenstein e riuscì a tornare. Pochissimi conoscono l'altra epopea di Valentino Mazzola, non solo leggendario capitano del Grande Torino ma marinaio in guerra. E forse si ignora che Piero Rava, oro olimpico nel '36 a Berlino e vincitore della Coppa Rimet due anni più tardi a Parigi (era la nazionale che salutava romanamente il pubblico), partì volontario nella campagna di Russia e dovette anche insistere per riuscirci. Perché lui era un campione e tutti lo guardavano come un matto, compreso il cittì Vittorio Pozzo. Ma come, un calciatore campione del mondo che potrebbe imboscarsi in qualche retrovia e invece vuole andare incontro a una morte se non certa, altamente probabile?

QUANTO RIGORE

Sono i capitoli di un libro che da soli meriterebbero un romanzo intero. Come l'incredibile campionato di guerra del 1944, con 65 squadre partecipanti (!) e vittoria finale (mai omologata) nel torneo dell'Alta Italia della formazione dei Vigili del Fuoco. Queste e altre avventure sono appunto la sostanza di un'opera diversa da tutte. Si intitola Sfida per la vittoria (Newton Compton, pp. 254, euro 9,90) e l'ha scritta Renato Tavella, storico dello sport che negli anni si è cimentato equamente tra l'epopea della Juventus e il romanzo del Grande Torino. I suoi volumi vendono molto e non invecchiano, anche perché lui li aggiorna con certosina cura piemontese, una pignoleria che resiste più che mai anche nell'epoca digitale.

Renato Tavella è un elegante signore di una certa età («Sono 72 anni, ormai, però a scartabellare mi diverto ancora»), molto british nel tratto e garbato nell'esposizione. Ha passato anni a cercare testimonianze e prove perché la storia è esercizio da detective, e più sono lontani i fatti più bisogna essere bravi a indagare. Quest'ultimo lavoro, in particolare, è assai più di un libro di sport. «Nel tempo ho avuto il privilegio di conoscere personaggi come Rava o Rabitti, sono stato il biografo di Valentino Mazzola, ho imparato che l'accesso diretto alle fonti è l'unico modo per essere credibili e trovare storie che nessuno ha ancora raccontato».

UN ROMANZO SENZA INVENZIONI

È cominciato così un lungo viaggio tra reduci, ormai rarissimi, vedove, figli, figlie e nipoti. La narrazione si è poi sviluppata in un unico flusso dove i personaggi compaiono sulla scena, escono e poi tornano. «Credo sia un modo più coinvolgente di raccontare: così la storia, in qualche modo diventa romanzo. Senza mai inventare niente, sia chiaro».

Anche se sono ormai trascorsi più di settant'armi da quelle vicende, trattarle resta un argomento delicatissimo. «È materiale esplodente. Nessuno ammette con facilità di essere stato fascista, ma non pochi campioni anche famosi lo furono. Però lo storico non dà giudizi: ricostruisce i fatti, incrocia i dati, li verifica e poi scrive». Trai molti personaggi che attraversano questa sorta di romanzo storico sportivo, il leggendario Piero Rava occupa un posto speciale. «Mori molto anziano, e negli ultimi anni trascorreva gran parte del tempo nel circolo della Juventus che allora si trovava nella vecchia sede. Parlai numerose volte con lui, uomo molto timido. Aveva conosciuto personalmente Mussolini, come del resto Piola e altri grandi sportivi di quell'epoca. Ma non pensò mai di mancare al proprio dovere di italiano, infatti chiese e ottenne di partire per la Russia dopo grandi insistenze. Erano tempi in cui bastava sbagliare una scelta per rovesciare un destino un’intera vita».

E poi c'era Dino Fiorini, che non passò alla storia del calcio pur avendo vinto un paio di scudetti con la maglia del Bologna. Lui era un fascista convinto, mentre il suo allenatore Weisz sarebbe morto in un lager. «Fiorini era bello, esuberante, donnaiolo, buon giocatore e fascista. Aveva un amico del cuore, Angelo Ferrari, che invece era partigiano e in tempo di pace era stato il suo barbiere. Un giorno partirono in Moto Guzzi e nessuno ha mai saputo che fine abbiano fatto. Di idee opposte, uniti dall'amicizia, spariti insieme, certamente uccisi. Ma da chi?».

FUORI E DENTRO IL LAGER

Una delle storie più drammatiche è quella di Michele Moretti che giocò per anni in serie B nella Comense, come allora si chiamava il Como, e che andò a combattere sui monti. Fu proprio lui a catturare il Duce insieme ad Aldo Lampredi e Walter Audisio, e probabilmente fu lui a sparare a Mussolini e Claretta Petacci. «Il mitra di Audisio si inceppò, così il partigiano chiese a Moretti di passargli il suo Mas. Ma fonti attendibili ci dicono che invece fu Moretti a sparare. Ormai aveva già smesso di giocare ed era uno dei capi della Brigata Garibaldi. Venne poi coinvolto nella questione dell'oro di Dongo, fuggì in Jugoslavia e un bel giorno tornò. Tuttavia quasi tutta la sua vita, così intrecciata alla storia d'Italia, rimane un mistero».

A quel tempo non bastava essere dei giocatori di serie A, o degli affermati allenatori, per scampare al destino scritto dalla guerra. Se ne accorse anche Mario Pagotto, ruvido terzino friulano, anche lui nel Bologna tricolore di Weisz. «I tedeschi lo catturarono dopo l'8 settembre nei pressi di Vipiteno e lo mandarono nel lager di Hohenstein, e poi in altri luoghi di lavori forzati. Non lo avviarono alle camere a gas solo perché non era ebreo ed era giovane, forte e abile alla fatica più nera. A differenza del suo allenatore riuscì a tornare vivo in Italia, riprese a giocare a calcio per un paio di stagioni e quando smise si comprò una merceria in un sobborgo di Bologna, insieme alla moglie. Fu quello il suo mestiere. A ben pochi calciatori lo sport permetteva di vivere da professionisti, figurarsi durante e dopo una catastrofe come la Seconda guerra mondiale».

L'ALA CHE VOLÒ ALTROVE

Renato Tavella ama il calcio e le sue storie anche perché ha giocato a buon livello nella Juventus. «Ero un'ala e una mezz'ala, sono cresciuto agli ordini di Ercole Rabitti, insuperabile maestro, insieme a gente come Furino, Roveta e Bercellino II, ma la mia carriera si è fermata nella squadra Primavera. Ero un po' una testa calda, arrivavo dalle case popolari e sapete che per andare avanti nella Juve non conta solo la bravura, è decisivo anche il comportamento». Invece di fare il calciatore ha compiuto un passo di lato, si è messo a osservare e scrivere. Poi ha cominciato a scavare nelle storie più lontane, cercando materiale per libri che raccontano la storia di un Paese, di com'erano i nostri nonni e i nostri genitori. «Ogni vita ha qualcosa da narrare, qualcosa di più grande di lei, qualcosa che però bisogna imparare a osservare con attenzione.

Lo sport che tanto amiamo e tante cose ci smuove dentro, non è mai soltanto quello che sembra. È sempre qualcos'altro».

Fonte: Il Venerdì 07/02/2020


07/02/2020

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