Assassino, eroe per le serie TV, per me, un padre


di Paolo Papi

Juan Pablo aveva 16 anni quando uccisero suo padre, crivellandolo di colpi mentre, scalzo e con la barba lunga, tentava disperatamente di fuggire dai tetti della sua abitazione-bunker nei sobborghi di Medellin. Era il 2 dicembre 1993. Braccato dalla Drug Enforcement Administration (DEA) e dalle forze speciali dell'esercito colombiano, costretto a nascondersi anche dai sicari del Cartello di Cali che gli davano la caccia, suo padre, Pablo Escobar, era diventato ormai l'ombra del potentissimo signore della droga che aveva inondato di cocaina il mercato statunitense e tenuto sotto scacco per dieci anni un intero Paese. Era un uomo sconfitto, depresso e abbandonato da tutti, non poteva nemmeno spendere il denaro accumulato e riabbracciare la sua famiglia. L'ultima telefonata, poco prima della morte, la fece proprio al figlio. «La sua fine è la parabola perfetta dei narcos: quello che il traffico di droga ti dà, te lo toglie, anche con gli interessi» racconta a Tustyle il primogenito del più spietato narcotrafficante della storia. Da allora, dopo aver cambiato identità insieme alla madre e alla sorella minore, ha vissuto per dieci anni sotto un altro nome, Sebastiàn Marroquin, a Buenos Aires, dove oggi lavora come architetto e scrive libri bestseller: Gli ultimi segreti dei Narcos è uscito quest'anno, in Italia edito da Newton Compton.
«Faccio conferenze e scrivo» dice, «per mandare un messaggio ai giovani: non fate come mio padre. Non buttate via la vostra vita».

Suo figlio ha quattro anni. Che cosa gli racconta del nonno?
«È piccolo, però non gli ho mai nascosto nulla né intendo farlo in futuro. Voglio, quando crescerà, che sappia il male che ha fatto mio padre, ed è immenso. Ma voglio anche raccontargli quel poco di bene che ci ha lasciato».

Vi ha lasciato qualcosa di buono, ne è sicuro?
«Il fatto che fosse un assassino spietato, che abbia procurato così tanto dolore, non mi impedisce di riconoscere che, paradossalmente, è stato un buon padre e ha fatto di tutto per crescere bene i figli. È vero: ho passato la mia infanzia con molti dei peggiori criminali del Paese e non potevo avere amici della mia età, ma mio padre aveva un alto senso della famiglia».

Ha mai incontrato i parenti delle migliaia dì vittime di Pablo Escobar?
«Certo, e a loro ho chiesto sempre perdono. Sono stati incontri commoventi, pieni di un dolore sordo e indicibile. Mi porterò nel cuore finché campo gli incontri coi parenti delle vittime del volo Avianca 203, fatto esplodere nel 1989 dagli uomini di mio padre per uccidere il candidato alla presidenziale Cesar Gaviria».

Basterà per rimediare?
«No, ma le voglio ricordare che cosa mi dissero, quando ci siamo incontrati, i figli di Luis Carlos Galàn e Rodrigo Lara Bonilla, due leader assassinati da mio padre: "Anche tu, Juan Pablo, sei una vittima"».

Le è piaciuta la serie Narcos (la terza stagione è attualmente disponibile su Netflix, ndr)?
«È piena di errori, di inesattezze. Li ho anche contattati. Non mi hanno risposto».

Perché?
«Semplicemente gli autori di quella serie sono più interessati alla versione della Dea e della Cia che a sapere come sono andati i fatti. Non parlano né del terrorismo di Stato, né delle responsabilità degli apparati di sicurezza, nordamericani in quella sporca guerra. Quando non era ancora ritenuto pericoloso, mio padre lavorò anche con la Cia e con la Dea. Perché lo hanno nascosto?».

Sembra quasi che voglia assolvere suo padre...
«Tutt'altro. Mio padre era un assassino sanguinario e un terrorista, non un modello. Sono state le serie come Narcos a trasformarlo in un eroe. Non sa quanti giovani mi scrivono, dopo averle viste, per chiedermi consigli su come si fa a diventare un narcotrafficante. Che rabbia!».

E dell'altra serie cult in Colombia, Pablo Escobar, el patron del mal, che cosa mi dice?
«Che riflette la storiografia autoassolutoria dell'establishment colombiano. Le ripeto: il fatto che mio padre fosse un killer spietato non autorizza lo Stato a trasformarsi in un soggetto terrorista. Siamo stati persino vittime di attentati durante la sua latitanza».

È uscito a Venezia Loving Pablo con Javier Bardem nei panni di suo padre e Penèlope Cruz in quelli di Virginia Vallejo, la presentatrice della tv colombiana che per anni fu la sua amante. Ha sentito gli sceneggiatori?
«No, non mi hanno contattato ma c'è un motivo: quel film si basa sul libro di memorie omonimo della Vallejo. Peccato che quella donna fosse un personaggio minore nella vita di mio padre. Se vogliono fare un film veritiero, devono contattare la famiglia».

Molti la accusano di speculare sul nome di Pablo Escobar, di aver fondato una linea di abbigliamento che porta il suo nome...
«Buona parte dei proventi finiscono alle associazioni delle vittime. Il messaggio di questa mia azienda è un altro: non fate come lui, non trasformatelo in un eroe come ha fatto Narcos. Era un bandito».

A proposito: che fine ha fatto l'immensa ricchezza di suo padre?
«Dopo la sua morte, mia madre dovette negoziare con i rivali del Cartello di Cali: tutti i suoi beni per avere salva la vita. È l'unico motivo per cui siamo ancora qui».

Perché ha rivelato al mondo di essere il figlio di Pablo Escobar?
«Fosse stato per me, avrei continuato a vivere col nome di Sebastiàn Marroquin. È lo Stato che ci ha sbattuti in prima pagina, trattandoci come riciclatori di denaro sporco. Mia madre s'è fatta due anni di carcere per questo. Risultato: dopo sette anni siamo stati tutti assolti. Siamo persone di pace, noi».

Fonte: Tustyle 13/09/2017


13/09/2017

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