Abbiamo risolto il giallo


In un libro la verità sul delitto di via Poma

Il giornalista esperto di "nera" e il funzionario che diresse le indagini ripercorrono passo passo la storia della morte di Simonetta Cesaroni

Ventinove pugnalate. Una ragazza seminuda riversa a terra in un ufficio dell’Associazione italiana alberghi della gioventù, un giallo mai risolto che, per trent’anni, ha letteralmente fatto impazzire investigatori e cronisti. Una serie di sviste giudiziarie senza precedenti, conclusa con un incredibile processo all’ex fidanzato, trascinato alla sbarra da indizi impalpabili, condannato in primo grado a 24 anni di carcere tra la costernazione di chiunque avesse seguito il caso e definitivamente assolto in secondo grado e in Cassazione. Nessun colpevole.

Scrivere un romanzo su uno dei gialli più clamorosi dell’ultimo mezzo secolo, a sei lustri dal delitto, è sempre una sfida. Doppia se, assieme al cronista-scrittore, l’autore è il funzionario di polizia che, fin dalla sera di quel 7 agosto 1990, diresse l’inchiesta sull’omicidio di via Carlo Poma, in Prati. Romanzo, appunto. “Il giallo di via Poma”, Newton Compton, in libreria dal 22 luglio prossimo è, ed è bene precisarlo fin dall’inizio, un’opera di fantasia. Chi cerca un’improbabile soluzione o il nome dell’assassino nelle pagine del libro rimarrà deluso. Anche se…

Alla nostra quarta avventura editoriale in coppia, chi scrive e Antonio Del Greco, ex funzionario della mobile romana oggi direttore di un importante istituto di vigilanza, abbiamo cercato di ricostruire, con la maggiore esattezza possibile e con una serie di dettagli inediti conosciuti solo da magistratura e polizia investigativa, le tormentate fasi di un’indagine andata avanti, fin dall’inizio, su un doppio binario: poliziotti e giornalisti. Sbirro e pennivendolo, come ci definiamo fin da quando è iniziata la nostra collaborazione letteraria.

Per rispetto verso la famiglia della vittima e tutti coloro che furono coinvolti nell’inchiesta, i nomi dei personaggi sono stati cambiati ma la trama, punto per punto, è quella che si può ricostruire dagli atti giudiziari, dagli articoli dei giornali (spesso estremamente fantasiosi) dai numerosi servizi televisivi. Tappe fondamentali della  vicenda: l’arresto del portiere dello stabile, rilasciato dopo 20 giorni di carcere e morto suicida alla vigila del dibattimento in cui avrebbe dovuto comparire in veste di testimone, l’incriminazione del nipote di un noto architetto che aveva progettato il palazzo e che fu, a sua volta, scagionato da ogni accusa e, successivamente, il processo all’ex fidanzato di Simonetta Cesaroni che molti definirono, senza mezzi termini, un orrore giudiziario più che un errore. Ogni volta la soluzione del caso sembrava a portata di mano, ogni volta le speranze sono state deluse. Restano solo domande senza risposta.

Attorno a quell’ufficio, dove la ragazza era arrivata al suo ultimo giorno di lavoro part time prima di andare in vacanza, si sono sviluppate le teorie più assurde, le ricostruzioni più strampalate, le ipotesi più incredibili, dal coinvolgimento dei soliti servizi segreti all’immancabile Banda della Magliana, destinata a comparire, almeno dietro le quinte, in ogni delitto mai risolto della Capitale. La realtà, come avviene spesso, è, probabilmente, molto più semplice.

Uno degli errori più comuni, quando si parla dell’assassinio di Simonetta Cesaroni, è quella di giudicare un’inchiesta di 30 anni fa col metro di oggi. Era l’epoca di una polizia in bianco e nero, di indagini portate avanti con metodi artigianali, di procedure d’investigazione scientifica ancora rudimentali. Il concetto di congelare la scena doveva ancora venire, il test del Dna era impreciso e poco affidabile, non esistevano cellulari ne’ tabulati telefonici e, tra l’altro, il nuovo codice di procedura penale, entrato in vigore l’anno precedente, aveva cambiato completamente le regole. Il pubblico ministero che, fino ad allora, era il referente della polizia giudiziaria, divenne il titolare delle indagini con un capovolgimento di ruoli che causò non poche difficoltà operative.

Scrivere questo libro, per lo sbirro e per il cronista, è stata un’immersione full time nei ricordi del passato. Entrambi, in più di un’occasione, abbiamo avuto l’impressione di esserci imbarcati nella stesura di un romanzo storico anche se abbiamo varcato (ahinoi) la soglia dei 65 anni. Siamo tornati a respirare l’aria viziata di una questura dove si fumava come turchi e si lavorava fino a notte fonda, abbiamo vissuto di nuovo l’esaltazione di un indizio e di una notizia destinata a rivelarsi l’ennesima pista falsa, siamo ritornati, nella memoria a quelle giornate interminabili, estenuanti, in cui la risoluzione sembrava spesso a portata di mano per poi svanire, regolarmente, come un miraggio nel deserto. Pietrino Vanacore, il portiere, Federico Valle, il giovane indagato e poi scagionato, Roland Voeller, il supertestimone poi implicato a sua volta in una serie di peripezie giudiziarie, Raniero Busco, l’ex fidanzato della vittima sono tornati a farci compagnia anche se, oltre ai nomi, ne abbiamo alterato spesso fisionomia, carattere, profilo psicologico.

Un romanzo, però, deve avere un finale e questa è stata, sicuramente, la prova più difficile soprattutto per Antonio Del Greco che non avrebbe tollerato la comparsa a sorpresa di un assassino di fantasia. Pensiamo di aver risolto il problema con un escamotage letterario che, ovviamente, non possiamo anticipare. Chissà se le cose sono andare veramente così? Possibile, se non probabile.

Quando presentiamo i nostri romanzi scritti a quattro mani (Città a mano armata, il Canaro della Magliana, Quelli Cattivi e un quarto che uscirà in autunno dopo Il giallo di via Poma) i lettori ci chiedono spesso la nostra opinione sull’omicidio di Simonetta Cesaroni. Sicuramente lo faranno anche stavolta. La domanda da un milione di dollari: pensate di sapere chi l’ha uccisa?

La risposta è si. Abbiamo un’idea. Quale? Chi?

Non lo diremo mai.

 Articolo di Massimo Lugli sul settimanale Visto

 

 


23/07/2020

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