A CACCIA DI QUADRI PROIBITI. Alchimia, arte e indagini. Il Rinascimento è un thriller


Fonte: Il Giornale 

A cura di Matteo Sacchi


L'Italia tra Umanesimo e Rinascimento si presta bene al romanzo storico. Intrighi, politica, violenza. E perché no un bel miscuglio tra nuove libertà, dell`anima e del corpo, e ritorno ai rigori di una religione che il protestantesimo e vari movimenti stavano mettendo in crisi. Insomma, tutti quei paradossi che poi porteranno al Secolo di ferro (il Seicento). Sarà per questo che serie televisive come I Medici funzionano così bene. E altrettanto bene funziona la serie di romanzi scritta da Matteo Strukul che, sempre occupandosi della potente famiglia fiorentina, ha trovato posto a lungo nei piani alti delle classifiche del 2016. Si tratta di una trilogia di cui per ora sono usciti i primi due volumi I Medici-Una dinastia al potere e I Medici-Un uomo al potere ed è in arrivo il terzo I Medici-Una regina al potere (tutti editi da Newton Compton). Sono su piazza da più tempo invece i romanzi di Marcello Simoni che spaziano dal Medioevo al Rinascimento, fino al Seicento. Nel 2016 ha dato alle stampe L`abbazia dei cento inganni (Newton Compton) ambientato a Ferrara a metà del Trecento e Il marchio dell`inquisitore (Einaudi) che invece racconta l`indagine di un membro del Sant`Uffizio su un omicidio molto particolare nella Roma di Urbano VII. Al romanzo, declinato in varie maniere - più pop Strukul, più filologico e attento alla lingua Simoni - si affiancano anche saggi, più o meno divulgativi, attenti a questa dimensione un po` alla House of Cards del Rinascimento. Il più rilevante è Il Rinascimento cattivo. Sesso, avidità, violenza e depravazione nell`età della bellezza dello storico inglese Alexander Lee da poco pubblicato da Bompiani. Come dice il titolo, è molto attento a far vedere come il mondo degli artisti fosse inscindibile da quello degli intrighi di corte. Si è dedicato invece, con un approccio micro storico, agli spionaggi e alla guerre di confine del Cinquecento lo studioso di Oxford No el M alcom. In Agenti dell`Impero. Cavalieri, corsari, gesuiti e spie nel Mediterraneo del Cinquecento (Hoepli), racconta come i confini della Serenissima fossero un incredibile "Far West" (anche se, geograficamente, erano il far east della civiltà europea in guerra col turco). Restando però nell`ambito del romanzo arriva oggi in libreria Il collezionista di quadri perduti di Fabio Delizzos (Newton Compton). L`ambientazione è nella Roma della Controriforma (il termine, per buoni motivi, agli storici non piace più, si preferisce parlare di riforma cattolica, ma è per capirci). L`autore, classe 1969 e nato a Torino, ha già azzeccato un bestseller a sfondo storico con la trilogia iniziata con La setta degli alchimisti e ambientata nella sua prima parte a Bologna sul finire del Seicento. Questa volta, invece, costruisce un giallo storico tutto incentrato sui rapporti tra pittura e censura del Sant`Uffizio. Il romanzo è ambientato nell`anno del signore 1555, dentro la cornice del Conclave per l`elezione di Papa Paolo IV, al secolo Gian Pietro Carafa 1476-1559. Carafa salì al soglio di Pietro dopo la morte di Marcello II che fu Papa per solo 21 giorni. Cosa che all`epoca bastò perché si malignasse di veleno. Carafa già prima di diventare Papa fu coinvolto in molti dei processi dell`Inquisizione contro i circoli degli spirituali, che erano religiosi accusati di essere vicini alla riforma. E tra i suoi primi atti, una volta diventato pontefice, vi fu quello di centralizzare l`Inquisizione, di creare un indice dei libri proibiti e anche di revocare tutti i diritti sin lì concessi agli ebrei romani. Questo dà l`idea del clima dell`epoca. Su questo romanza Delizzos immaginando che il mercante d`arte Raphael Dardo (fratello adottivo di un pittore morto sul rogo) venga mandato a Roma da Cosimo de` Medici con la missione di salvare le opere d`arte considerate eretiche dall`Inquisizione. La sua missione però, in un`Urbe oscura e violenta, si complica alquanto. Il protagonista si ritrova invischiato in una serie di indagini e di omicidi dentro il mondo dell`arte e della prostituzione, e all`inseguimento di un pittore misterioso. Quest`ultimo è conosciuto come l`Anonimo. E i suoi quadri hanno qualcosa di strano, il loro realismo secondo alcuni ha qualcosa di innaturale e stregonesco... Chi ha insegnato all`Anonimo una tecnica che puzza di satanismo e alchimia e che anticipa di secoli la fotografia? Svelare di più sarebbe fare un dispetto al lettore. Basti sapere che il romanzo diverte nel suo essere molto picaresco, anche se tende a sposare in pieno la leggenda nera dell`Inquisizione e del Vaticano (che andrebbe invece quantomeno mitigata). Però va detto che per molti altri dettagli si rivela sorprendentemente preciso. Ad esempio quello che si legge sul cardinale Innocenzo del Monte (1532-1577) è in parte finzio- ne letteraria ma non cade molto lontano dalla vera follia del religioso. C`è anche uno splendido personaggio, il geniale Ariel Colorni che fa da spalla a Dardo, che ricorda da vicino Abramo Colorni «il Leonardo degli ebrei» magistralmente raccontato da Ariel Toaff in un saggio di qualche anno fa. Ci sono anche scorci della Roma dell`epoca raccontati con precisione certosina. E chicche sulle cripto-scritture davvero notevoli. Insomma, il gioco in questi romanzi, per il lettore, è anche separare il vero dal verosimile e dalla fantasia. Ed è un gioco che piace, visti i numeri in libreria, e che fa anche bene alla conoscenza della storia.

Fonte: Il Giornale

Chi è il misterioso pittore che sembra anticipare le tecniche fotografiche?
Da Veronese a Pontormo ecco i pittori che finirono nel mirino del Sant`Uffizio
Nel Cinquecento anche la pittura fu soggetta a censure. Ma c`erano trucchi per evitarla...

A cura di Andrea Dusio
Noi pittori ci pigliamo la licenza che si pigliaino i poeti e i matti». È quanto tentò di spiegare Paolo Caliari detto il Veronese davanti al Tribunale del Sant`Uffizio, in quello che resta il caso più celebre di intervento diretto dell`inquisizione contro l`opera di un artista, il processo che nel 1573 ebbe per oggetto il Convitto in Casa di Levi, realizzato per i Domenicani della Basilica di San Giovanni e Paolo a Venezia. Il Veronese era allora uno degli artisti più stimati e pagati in terra veneta, e la sua fama, oltre che ai cicli decorativi lasciati nelle ville palladiane e nelle Scuole, era in buona parte legata alle Cene, smisurati teleri di diversi metri, in cui metteva in scena fastosi banchetti ispirati alle feste dell`aristocrazia veneta, usando gli episodi del Vangelo come mero spunto per narrazioni ricche di debordante aneddotica e personaggi che nulla avevano a che fare coi testi sacri: paggi, valletti, musici, buffoni, mescolati agli invitati. Così era stato per le Nozze di Cana dipinte nel 1563 per il refettorio del convinto benedettino sull`isola di San Giorgio Maggiore, la tela oggi esposta al Louvre nella stanza della Gioconda. La fortuna di quell`opera gli aveva procurato nel 1571 la commissione per la realizzazione di un`Ultima Cena, con cui i Domenicani intendevano sostituire un dipinto di Tiziano andato distrutto. Ma quando il pittore svelò il telero al priore di San Zanipolo, questi si avvide che la scena non somigliava in alcun modo alla raffigurazione del cenacolo. Veronese aveva infatti riempito la scena di personaggi incongrui alla narrazione, e l`aveva ambientata entro una sontuosa architettura palladiana. Molti dei convitati volgevano addirittura le spalle al Cristo, impegnati in una fitta conversazione, senza dare alcuna importanza al mistero che si stava compiendo alla loro presenza. Il Veronese aveva inizialmente rifiutato di modificare il dipinto, e, secondo il verbale che è arrivato sino a noi, nel difendersi spiegò: «Michel Agnolo in Roma, dentro la Cappella Pontifical, vi à depento il nostro Signor Gesù Cristo, la sua Madre et S. Zuane, S. Piero e la Corte Celeste, le quali sono fatte nude, dalla Vergine Maria in poi, con atti diversi, con poca riverenzia». Come a dire. «C`è chi ha fatto peggio di me». Fu condannato a correggere a proprie spese i particolari indecenti secondo le indicazioni degli inquisitori, ma se la cavò con un brillante escamotage: cambiò il titolo dell`opera, in Cena in casa di Levi, eliminando il motivo principale di scandalo, l`impossibilità di riconoscere nella tela una rappresentazione canonica dell` Ultima Cena. Quanto ai nudi del Giudizio Universale, fatti coprire per ordine della Congregazione del Concilio di Trento, va ricordato che la censura, ordinata nel 1564, cominciò dopo la morte di Michelangelo nel 1565, e che a questi non venne mossa alcuna formale da parte della Curia Romana. A contestare l`opera furono all`inizio voci eteroge- nee, dall`Aretino al cerimoniere di Paolo III Biagio da Cesena, sino ad Andrea Gilio, che ne fece il punto centrale dei suoi dialoghi intitolati Degli errori e degli abusi de` Pittori circa l`historie. Ma anche sotto il pontificato di Paolo IV Carafa (1555-1559), nel momento di massima pressione sul tema dell`ortodossia delle immagini religiose, a Michelangelo fu risparmiata l`onta di un procedimento davanti al Santo Uffizio. La Chiesa ha insomma esercitato, sempre, una prudenza superiore a quanto si creda nel giudicare e censurare le opere pittoriche. In qualche caso a evitare un processo fu, più che la volontà di proteggere l`artista o l`opera, il dubbio che si potesse risalire a chi aveva ispirato determinate immagini. È il caso degli affreschi lasciati dal Pontormo nel coro di San Lorenzo a Firenze, ispirati alle teorie di Juan de Valdés, il riformatore spagnolo la cui teoria, della giustificazione per sola fede ebbe profonda eco presso la corte medicea, negli ambienti vicini all`arciduchessa Eleonora da Toledo, moglie di Cosimo I. Il ciclo venne commissionato nel 1545 e fu scoperto però solo nel 1558, quando il clima politico del quarto decennio, che vedeva Firenze e Roma contrapposte, era mutato radicalmente. Le masse di nudi informi, i corpi dei morti affogati nella scena del "Diluvio”, non piacquero a nessuno. Qualcuno accusò il Pontormo di «aver chancrato la divozione di quella chiesa». E non a caso gli affreschi vennero distrutti nel 1738. Ma l`elemento di maggior interesse è il racconto del cantiere che Vasari inserisce nell`edizione delle Vite del 1568: «Avendo egli adunque con muri, assiti e tende turata tutta la cappella e datosi tutto alla solitudine, la tenne per l`ispazio di undici anni serrata». Questa la tesi: nessuno aveva potuto vedere gli affreschi prima che fossero rivelati, tanto meno il granduca Cosimo. Dunque la responsabilità della raffigurazione ricadeva sul solo artista. In merito a cui il Vasari aggiungeva: «Non mi pare (...) in niun luogo aver osservato né ordine di storia, né misura, né tempo, né varietà di teste, non cangiamenti di colori di carni, et insomma non alcuna regola di proportione, né alcun ordine di prospettiva; ma pieno ogni cosa d`ignudi, con un ordine, disegno, componimento, colorito e pittura fatta a suo modo, con tanta malinconia e tanto poco piacere di chi guarda l`opera...», a rimarcare che gli affreschi non richiamavano un progetto iconografico intellegibile. Mentre in realtà a ispirare il ciclo era stato un testo di catechismo del Valdés, pubblicato proprio nel 1545 e rielaborato dall`accademico Benedetto Varchi. Così è nata la leggenda, favorita dalla lettura dei suoi taccuini di ipocondriaco, della pazzia di Pontormo, a nascondere gli sbandamenti ideologici dei suoi committenti. «La licenza che si pigliano i poeti e i matti» veniva insomma concessa all`artista. La deviazione dall`iconografia no, perché poteva essere usata a prova del pensiero eretico del suo committente. E mandare questi davanti all`Inquisizione, in luogo dell`artista.


05/01/2017