Massimo Lugli racconta Stazione Omicidi


Massimo Lugli racconta Stazione Omicidi
a cura del blog Letteratitudine

Un’amicizia impossibile tra un ragazzo della buona borghesia romana e il ladruncolo, schiavo dei rom, che si è intrufolato in casa sua per rubare qualcosa. Due destini che sembravano opposti e che finiscono per unirsi in un legame indistruttibile. Una gang raccogliticcia, improbabile, composta da cinque personaggi che più diversi non si può, destinata, incredibilmente, a salire fino al vertice della malavita romana. Una nuova droga che stravolge completamente il mercato e diventa il business principale della criminalità capitolina. E…
Gli ingredienti sono questi. Se li ho amalgamati, cucinati e preparati in modo da far gola al lettore non sta a me giudicarlo, lo posso soltanto sperare. Come per ognuno dei miei romanzi, ci credo ciecamente e ci ho lavorato come se, per usare le parole del mio autore di culto, Mario Vargas Llosa, fosse l’ultimo libro della mia vita.
Ma questa trilogia, intitolata Stazione omicidiVittima numero 12 e 3, in uscita tra giugno e agosto, è stata veramente una sfida, la più dura da quando ho cominciato ad affiancare una piccola, ma ambiziosa attività di narratore a quella del cronista di nera, mestiere che ho amato senza riserve per quarant’anni e che continuo ad amare perdutamente anche ora che sono in pensione.
Tre romanzi da scrivere in meno di un anno sono veramente roba tosta. Una faccenda da toglierti il sonno e l’appetito, se la prendi male. L’idea iniziale era quella di condensare le avventure di Flavio, Vasile, Jean Luc, Marzia e Felipe, i cinque protagonisti principali della storia, in un unico libro, magari un po’ più corposo dei miei precedenti undici, ma, comunque, uno soltanto. Il mio editore, quando gli ho abbozzato la trama la vedeva diversamente. «Be’, facciamone tre», ha concluso Raffaello Avanzini con la solita,  sbrigativa, bonomia. «Dacci dentro e vedrai che ci riesci». Visto che non mi è venuta in mente nessuna risposta intelligente e salace per rifiutare, ho acconsentito. Insomma, sono entrato in una stanza con un progetto e ne sono uscito venti minuti più tardi con un piano di lavoro triplicato. Arrivato a casa, mi sono domandato seriamente se ero uscito di testa a dire di sì, poi ho acceso il pc e mi sono messo a lavorare. Alla fine, cosa di cui vado fierissimo, ho consegnato i manoscritti (ma perché diavolo continuiamo a chiamarli così? Insondabili misteri del mondo editoriale) un mese prima della scadenza prevista. E, a 61 anni suonati, ho capito una cosa: se qualcuno ti sa spronare sul serio, ti sa motivare, non ci sono ostacoli che tengano. Grazie, Raffaello.
Se qualcuno non si è ancora stancato di leggere, passo al contenuto del romanzo. Le etichette non mi piacciono ma si può definire sicuramente un noir o un thriller, visto che il giallo è un altro genere e la parola di solito mi fa venire l’orticaria. Un cocktail di fantasia e realtà di cronaca, come in tutti i miei libri precedenti. Se posso appuntarmi una medaglietta da solo, be’, dirò che a differenza di tanti autori conosco quello di cui scrivo. Ho vissuto a fianco di poliziotti e carabinieri per quasi mezzo secolo, ho frequentato e intervistato malavitosi di ogni calibro, so come si parla in un commissariato, come nasce un’indagine, come si decide un omicidio o un “azzoppamento” per punire uno sgarro. Conosco le armi da fuoco, so sparare e non confondo una semiautomatica con un revolver come, purtroppo, capita spesso. I “miei” banditi parlano, si muovono, si vestono, si ammazzano esattamente come quelli veri e nei miei romanzi non c’è mai un commissario sfigato e crapulone in rivalità coi superiori, uno spaccagambe che rivela un cuore di panna o altri stereotipi del genere.
Per scrivere Stazione omicidi ho dovuto congedarmi, almeno per un po’, dal mio protagonista seriale, Marco Corvino, il cronista-detective, mio alter ego letterario, che ho accompagnato in sette diverse avventure, da Il Carezzevole, ambientato negli anni ’70, a Nelmondodimezzo, un titolo che dice tutto. Anche Corvino, in fondo, ha diritto a un po’ di riposo. Voltando pagina, mi sono liberato di qualche pastoia: nella trilogia non c’è l’io narrante, uso il presente storico al posto del passato remoto e, soprattutto, finalmente parlo di Roma. Nei miei romanzi precedenti, la capitale è sempre rimasta dietro le quinte, come il suggeritore a teatro: la delineo senza farne mai il nome, mi diverto a farla apparire e scomparire con descrizioni accurate ma senza mai usare un solo toponimo. Stavolta no. Tutta vita. C’è l’Infernetto, piazza Esedra, la Colombo, il Fleming e, naturalmente, le borgate: Tor Bella Monaca, Laurentino 38, Labaro, Giardinetti… Insomma, quelle zone di cui si parla spesso nei tg e mai per qualcosa di buono. Ogni tanto si deve cambiare nella vita.
Quello che non cambia è la mia passione per le arti marziali che pratico da quando avevo 9 anni (quindi più o meno nel Pleistocene) e che riesco a infilare a tradimento in tutti i miei romanzi. Stavolta, comunque, ci sono andato leggero, promesso.
Da (incapace) praticante taoista so che un libro ha diverse facce. Il Viaggio in Occidente di Wu Cheng’en, la favola dello scimmiotto magico scritto nel 1500 dal Maestro Lunga Primavera si legge tre volte: prima come un bambino, poi come un adulto e infine come un praticante. Si parva licet, mi sono divertito a inserire alcuni elementi simbolici nella trama e magari qualcuno riuscirà a coglierli. Dico solo che gli elementi della cosmogonia cinese sono cinque come i miei personaggi e tre è il numero originale dei Tai Chi: Ying, Yang e Wo, la polarità neutra che nel tempo è stata quasi dimenticata e corrisponde al grigio, tra il bianco e il nero. Naturalmente è solo un gioco. Ma scrivere questo libro non è stato un gioco. Lavoro duro. Che in cinese, guarda caso, si dice kung fu.

(Riproduzione riservata)

© Massimo Lugli


22/07/2016